Ci fu un tempo in cui la vita delle comunità era regolata sui rintocchi della campana. Aveva un linguaggio da tutti riconosciuto e condiviso. Poi, però, il suono della campana è finito… in tribunale. Come è potuto accadere? Qui narro una storia scaturita un po’ dalla fantasia e un po’ no. Poiché, comunque, «na storia béla fa piasì cüntela», io la racconto. Nel diffuso frastuono rabbioso e ostile, abbiamo un gran bisogno di storie che non fanno arrabbiare, che contengono un senso di giustizia e lasciano aperta la fessura della speranza. Tra cronaca e romanzo, hanno un posto ideale le «StOriE CoSì», racconti verosimili con i connotati della verità autentica e possibile. Buona lettura e appuntamento a lunedì prossimo con un’altra «béla storia». Ciau!
[L’illustrazione in apertura è opera di Filippo Pietro, 8 anni; per disegnare la Gloria realizzata in bronzo ha sfumato diversi colori. Accanto ha voluto realizzare le vetrate, ispirate a quelle della Chiesa del Cuore Immacolato di Maria, d Casale Monferrato]
L’ufficiale giudiziario bussò alla porta della canonica. Non provò neppure a suonare il campanello: era guasto da sempre. Lo sapeva perché, in quel paesino di 350 vite, aggrappato alla sommità di una collina vestita di vigneti e noccioleti, ci aveva trascorso le estati della fanciullezza e dell’adolescenza. L’oratorio era stato il suo campo di formazione, il parco dei divertimenti, la scuola di vita. La casa dei nonni era il rifugio serale, per la cena di minestra in brodo «che fa bene in qualunque stagione», uova strapazzate con contorno di pomodori appena colti nell’orto e immersi in una emulsione di olio di oliva, aceto di vino e sale, insaporiti con spicchio d’aglio. Per finire, pesche con succo di limone e zucchero. Poi, fuori, si stava ad ascoltare vecchie storie, affogate nei sospiri umani, ritmate dal frinire dei grilli e punteggiate dall’intermittenza delle lucciole.
Sullo sfumare dei dieci rintocchi della campana, la nonna interveniva perentoria: «Si va a nanna che domani mattina bisogna alzarsi di buon’ora». Il sonno arrivava presto, come un tuffo nel vaporoso materasso di piume avvolto in un fresco lenzuolo di tela.
Erano passati quasi trent’anni e il campanello continuava a essere guasto, nonostante i rinnovati propositi di farlo riparare.
L’ufficiale giudiziario non ottenne risposta. Non se ne sorprese. Sospinse l’anta di destra socchiusa e si avventurò lungo il corridoio stretto, poco rischiarato e odoroso di muffa, muovendo i passi verso un taglio di luce orizzontale sul pavimento. Aprì anche quella porta affacciata su un rettangolo di vegetazione fitta e solo allora chiamò a voce alta: «Don Leo, don Leo!».
Dai filari degli zucchini si raddrizzò al rallentatore una massa badiale avvolta in bicolore rosso e blu che, completata la levata, si distribuiva in oltre un metro e ottanta di altezza moltiplicato per una ragguardevole circonferenza.
«Sei tu?» rispose di rimando il prete, sollevando di poco la cappellina per tergersi il sudore dalla fronte con il braccio destro, nella cui mano, imbrunita di terra, brandiva un coltellino. Nella sinistra, serrava uno zucchino.
«Sei venuto a darmi una mano?» domandò allegramente, posando lo zucchino nella cesta accanto ai piedi, infilati in sandali francescani.
«Mi piacerebbe, don» replicò il giovane, «ma sono al lavoro».
«E allora che ci fai qui?» rimbeccò il prete-contadino frugandosi la barba.
«Eh, che ci faccio io… Che cosa ha fatto lei, piuttosto» incalzò l’altro, facendo svolazzare un foglio nell’aria densa e calda. «Questa è una notifica del tribunale».
Don Leopoldo lo guardava con gli occhi a fessura e una smorfia della bocca.
«Un processo» puntualizzò il giovane. «Ho detto in ufficio che la conosco e che le avrei consegnato personalmente la convocazione».
«Che cosa vuol dire?» si informò il sacerdote rituffandosi tra le piante cespugliose di zucchini.
«Vuol dire che vogliono processarla, don Leo».
«Me?» domandò più attento rimettendosi dritto, con la fronte corrugata. «E perché mai, mio Signore?» sospirò, volgendo gli occhi al cielo.
«Ah, questo io non lo so, lo domandi a Lui; però… lì sopra c’è la data e l’ora. Dal giudice di pace».
«Ah, bé, allora, se è per una questione di pace…».
L’ufficiale giudiziario scosse lievemente la testa e tornò a domandare: «Ma che cosa ha combinato, don Leo?».
Quando la cesta fu colma di zucchini, pomodori e peperoni, il prete uscì dai filari, pestando i piedi per rimuovere la terra dalle suole dei sandali.
Si lavò accuratamente le mani al pozzo, sfregandole con un pezzo di sapone di Marsiglia, poi entrò, si sedette al tavolo con un bicchiere e una bottiglia di acqua Viscì che grondava condensa e lesse attentamente.
Il testo era scritto in italiano, ma sarebbe stato uguale in arabo arcaico o in cinese mandarino.
Ciò che gli pizzicava la fronte, fastidiosa come una mosca che marca il temporale, era la domanda dell’ex bacaiot dell’oratorio, ora ufficiale giudiziario: «Che cosa ha combinato, don Leo?».
Si concentrò sulla sua ultima confessione, non era nemmeno passato un mese. Don Leopoldo e don Firmino avevano studiato insieme in Seminario e si erano intesi sempre perfettamente. Così, da anni si confessavano reciprocamente, all’incirca una volta al mese, nella casa parrocchiale ora dell’uno ora dell’altro, dopo aver onorato i doni della natura e del pollaio copiosamente rappresentati su una tavola imbandita.
Sì, ricordò sospirando il vecchio parroco, l’amico confessore lo aveva ammonito per i peccati di gola, raccomandandogli di misurare le esorbitanze, e anche di trattenersi da quelle invettive che, ogni tanto, sciabolava nei confronti di certe beghine che seminavano zizzania a profusione come sventagliate di mangime alle galline.
Don Leopoldo aveva fatto penitenza e la questione era finita lì. O, almeno, così lui pensava.
Che qualcuna delle beghine, piccata, lo avesse denunciato?
Dormì inquieto. Il giorno dopo, indossò il clergyman, infilò il documento in una cartella di pelle nera e si presentò in curia per riferire al Vescovo.
Che, letta la notifica del processo, gli domandò: «Che cosa hai combinato, don Leopoldo?».
Uscito dalla casa vescovile, andò a cercare uno dei ragazzotti che gli aveva fatto da chierichetto. Il nome era scritto sull’insegna di ottone: «Avvocato Dante Borio».
Dalla borsa nera estrasse nuovamente il documento e glielo mostrò.
E quello fissandolo negli occhi: «Ma che cosa hai combinato, don Leo?» domandò.
La cosa doveva essere proprio grossa, meditò il mastodontico sacerdote che, di colpo, sentì la propria anima rimpicciolita come quella di un pollastrino.
A passo lesto, attraversò la piazza e si infilò nell’ombra fresca del Duomo. Inginocchiato davanti al Santissimo, incrociò le mani compatte e rinnovò l’onnicomprensiva invocazione di perdono che aveva già esortato, con pentimento sincero, dopo l’ultima confessione.
Tornato in paese, sul calendario della Carrozzeria Sprint cerchiò con un evidenziatore giallo la data del processo.
Al tribunale arrivò con largo anticipo. A metà ottobre, la temperatura si era abbassata repentinamente. Se ne stava impettito in un angolo del corridoio, a sorvegliare il passaggio obbligato: il suo avvocato non poteva che transitargli sui piedi.
Lo vide arrivare, che chiacchierava con un paio di colleghi e rideva per qualche battuta. Che cosa aveva da ridere quando il suo vecchio parroco stava per essere messo alla gogna? O marcire in galera? O finire sulla forca?
Su un foglio, fissato con quattro strappi di scotch sopra l’anta di una porta smaltata di grigio e scrostata in più punti, c’era anche il suo nome.
Che una voce pronunciò, facendolo rimbalzare per tutto il corridoio.
«Presente» rispose don Leopoldo.
Entrò a passo lesto in una grande stanza, ma si fermò subito oltre la soglia, senza sapere dove andare.
C’erano diversi banchi bassi e uno, più imponente e rialzato, occupava quasi un’intera parete. Una donna con la toga seduta al centro gli sorrise, il prete ricambiò, un po’ intimidito.
L’avvocato Borio gli fece un segno con la mano invitandolo a sedersi accanto a lui.
Poco distante, il prete riconobbe un compaesano d’adozione. Si era insediato in paese da poco più di un anno. Un tipo molto riservato. Musicista. Lo si sentiva suonare il pianoforte soprattutto nella stagione buona quando le finestre erano aperte. Le beghine, bene informate, avevano anche riferito che era niente meno che il direttore di un’orchestra importante a Milano. E faceva persino tourneè in tutta Italia e all’estero.
Il parroco gli rivolse un sorriso. L’altro restituì un cenno striminzito.
La lettura del capo di imputazione richiamò l’unanime attenzione.
«Rottigni Leopoldo, nato il 29 febbraio 1948…». La giudice incrociò uno sguardo lievemente divertito con quello del sacerdote che accennò un movimento di assenso, a dire “eh sì, spengo le candeline solo ogni quattro anni…”.
«… difeso dall’Avvocato Dante Borio, con studio in via…». Don Leo si volse a guardare il profilo del suo difensore, come ad assicurarsi che fosse proprio lì, in carne e ossa.
«Imputato…».
Il parroco si fece attento: «della contravvenzione di cui all’articolo 659 C.P. perché, nella sua qualità di parroco della Parrocchia Madonna delle Grazie, mediante schiamazzi o rumori, ovvero per aver prodotto, a più ore del giorno e ripetutamente, il suono della campana…».
«La Gloria?» esclamò il parroco stupefatto, sollevandosi lievemente dalla sedia.
L’avvocato lo redarguì con uno sguardo severo.
«…. il suono della campana attigua alla chiesa suddetta,» riprese la giudice, «causando disturbo alle occupazioni e al riposo delle persone».
«La Gloria disturba?» ripeté sottovoce il prete grattandosi nervosamente la barba ispida.
Poi si sporse in avanti a cercare lo sguardo del direttore d’orchestra, ma intercettò soltanto il profilo.
Don Leopoldo infilò l’indice nel collarino rigido per dare spazio alle vene del collo che si erano gonfiate come le camere d’aria di una bicicletta. Avrebbe voluto strapparlo via, il collarino.
«La Gloria… o basta là!» borbogliava contrariato. «Povera la mia Gloria!». Non si dava pace.
Respirò lungo mentre il direttore d’orchestra si sedeva davanti allo scranno della giudice, avvicinandosi al microfono. Brizzolato, elegante, gran bel portamento.
“Forse”, rifletté il prete, “c’è una spiegazione… non può essere che un equivoco…”, pensò in uno sforzo fiducioso di chiarimenti.
«Declini le sue generalità».
«Mi chiamo Rolando Destefani, nato a Milano, musicista e compositore di professione, e dirigo l’Orchestra Sinfonica di…».
«Parlapà» si lasciò scappare don Leopoldo e per la seconda volta l’avvocato lo fulminò.
Il direttore d’orchestra gesticolava con armoniosa fermezza come se tenesse tra le dita la bacchetta. Si presentò come «figlio della metropoli italiana per antonomasia» dove aveva mosso i primi passi sul rigo delle note, ondeggiando tra minime, crome e biscrome, palleggiando diesis, bemolle e bequadro». Ma si sentiva, ormai e di fatto, «cittadino del mondo, perché la musica è la voce universale dei popoli, seme trionfale di pace e tolleranza, sepolcro di dissensi e dissidi».
«E allora perché ce l’ha con la Gloria?» bisbigliò il parroco accostandosi al suo difensore.
«Non ce l’ha con la Gloria…» replicò quello secco.
«Meno male!».
«Ce l’ha con lei, don Leo».
Il prete si scostò piccato.
Il direttore d’orchestra, da un anno e mezzo, aveva preso casa nel paesino collinare, «lontano dall’inquinamento sonoro della grande città» spiegò, «allo scopo di irrobustire l’ispirazione e acuire la concentrazione necessaria a guidare la prorompente esuberanza di un’orchestra di cento musicisti su palcoscenici internazionali».
Don Leonardo fu lì lì per applaudire, ma si trattenne ricordando che quello era il nemico. “Perdonami, Signore, volevo dire l’avversario” bisbigliò contrito.
In sostanza, «l’antica villa di una nobile signora passata a miglior vita, dopo aver tirato in lungo quella terrena, era stata messa in vendita. Appena ci ho messo piede, me ne sono innamorato: una signorile magione in altura, con vista celestiale, signorilmente adagiata appena sotto la cima della collina su cui svetta la chiesa parrocchiale».
La sontuosa casa era stata dimora della signorina Luisetta Delodi, senza eredi, ultima discendente di una aristocratica famiglia, parrocchiana molto pia e un po’ piva, ma devota e generosa benefattrice. Anzi, proprio…
«Ecco, proprio la chiesa parrocchiale è il problema per cui ora siamo qui» arrivò al dunque il forbito direttore d’orchestra.
La faccia della giudice era atteggiata a punto interrogativo: e perché mai?
«Perché, attiguo alla chiesa, c’è un campanile. E nel campanile c’è una campana. E la campana suona».
E quindi?, incalzò il punto interrogativo togato.
«Suona troppo forte e troppe volte in maniera in-dis-cri-mi-na-ta. Ergo, disturba la quiete pubblica».
Da qui, «la mia denuncia nei confronti del parroco per disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone».
Il direttore d’orchestra tornò al proprio posto.
La giudice consultò l’orologio: «Si è fatto tardi. Fissiamo un’altra udienza per sentire l’imputato Leopoldo Rottigni».
Don Leopoldo, rientrato in casa parrocchiale, saltò il pranzo.
“Brutto segno” valutò la cuoca che si confidò con la vicina di casa, e questa lo riferì alla bottegaia, che ne mise a parte la sua migliore amica, e l’altra amica, e l’altra ancora, praticamente a tutto il paese in un amen: che chi di noi non ha un migliore amico a cui confidare un segreto?
Il parroco, digiuno, si sedette ai piedi della torre campanaria con gli occhi in su salmodiando “Gloria, Gloria, Gloria”.
La Gloria aveva trent’anni.
La sua predecessora era stata trafitta da un fulmine e crollata a terra con fratture irrimediabili.
Per la piccola comunità collinare un lutto sociale. Il paese si era ammutolito senza i rintocchi a ogni ora (e anche alle mezze), di giorno e di notte, e per tutte le funzioni religiose, e anche per quelle civiche, e per i momenti di festa e quelli di calamità. La campana era la voce di quella gente.
Fecero una colletta, cavando fuori risparmi da sotto i materassi e le piastrelle.
E, anzi proprio… già, anzi proprio la signorina Luisetta Delodi era stata largamente prodiga, tanto che si sarebbe voluto chiamare la campana con il suo nome, ma lei ritenne più che sufficiente il ruolo di madrina nel giorno della benedizione inaugurale.
E poiché l’inaugurazione avvenne nel giorno glorioso di Pasqua, con suono a distesa e in allegrezza, si convenne che il nome adatto fosse Gloria.
Era stata commissionata nientemeno che alla Pontificia fonderia di campane Marinelli di Agnone, in Molise. «Una signora campana» diceva con orgoglio il parroco, «in lega di bronzo, con dosaggio perfetto di rame e stagno, per ottenere un suono ricco, luminoso e prolungato».
Accogliendo, se pur a malincuore, l’invito del Vescovo a contenere i rintocchi in ossequio alla più aggiornata giurisprudenza secolare, si convenne di limitarne l’impiego tralasciando la funzione di orologio con rintocchi a ogni ora e a ogni mezza. La Gloria, pertanto, suonava esclusivamente in occasione delle celebrazioni religiose: le messe feriali e festive, i battesimi (ormai rari), i matrimoni (pochi), i funerali (troppi), le funzioni dell’Avvento, della Quaresima e la ricorrenza del Santo Patrono. Si sforava, al più, in speciali circostanze della vita civica in accordo con la popolazione.
«Così avviene da anni e andiamo tutti d’amore e d’accordo» spiegò don Leopoldo alla giudice spalancando le braccia a palmi in su.
«Ma quali sono le speciali circostanze, diremo così, civiche? Perché, vede, qui nella querela leggo, ad esempio…».
Il parroco si sporse in avanti per spiegarsi bene: «Ci sono cose, ahimé, succedono senza preavviso, per questo sono speciali. La Gloria ha suonato quando il Pinin è stato travolto e schiacciato dal trattore. E quando i cinghiali hanno fatto d’inverno, sì insomma, hanno distrutto i noccioleti dei Binello, bisognava avvisare anche gli altri agricoltori per metterli in guardia. Pure quando l’argine ha ceduto, che, se non si interveniva subito tutti insieme, l’acqua sarebbe arrivata fino alla casa di riposo: allora sì che avremmo dovuto fronteggiare una tragedia! Poi, ha suonato a festa quando sono nati Mattia e Lorella, che erano otto anni che non nasceva più un’anima in paese e sono arrivati due gemelli in un colpo. Ancora: quando la zi’ Nene ha aperto lo spaccio con servizio bar: un soffio di vitalità, dopo che la bottega era stata chiusa ben quattro anni prima. E a festa ha suonato per il compleanno della nonna Delfina…».
«Pure per i compleanni?» interruppe la giudice sollevando un sopracciglio.
«Un secolo, giudice, un secolo: cent’anni di vita ha centrato la Delfina, e fa ancora l’uncinetto. Insomma, tutte circostanze speciali, ecco».
Il parroco, dopo il filotto, si appoggiò allo schienale aspettando una nuova domanda. Osservando le nuvole oltre la finestra che riquadrava un pezzo di cielo lattiginoso, “potrebbe piovere” pensò, lievemente preoccupato, “i copertoni della Panda sono un po’ lisi, speriamo bene”.
Fu richiamato all’attenzione dal direttore d’orchestra: «Non sono soltanto eventi eccezionali, la campana suona tutte le mattine poco dopo le sette!» protestò veemente.
«Oh, ma certo, sono i rintocchi che annunciano la prima messa quotidiana», precisò don Leo con entusiasmo, rivolto alla giudice, «è una funzione religiosa, no? La celebro alle sette e mezza, ma il richiamo va fatto per tempo, giusto con un quarto d’ora d’anticipo».
La giudice fece un ultimo blando tentativo di conciliazione, poi si ritirò in camera di consiglio per decidere il verdetto.
E decise: «Il parroco sia assolto». Premesso che, scrisse nelle sue articolate motivazioni, «l’uso delle campane risponde a un’antichissima consuetudine con consenso pressoché unanime», anche nel paese in questione è stata rilevata «l’assenza di qualsivoglia reazione contraria dei residenti all’impiego della campana, a parte l’unico reclamante, ossia il direttore d’orchestra».
Inoltre, osservò che, a riguardo della potenza del suono, non erano stati superati «i limiti della ragionevolezza, con riferimento alla sensibilità “media” del cittadino di area urbana e non a quella soggettiva dei singoli interessati».
La sentenza prese in esame anche la lagnanza del querelante circa la particolare vicinanza della torre campanaria alla propria abitazione: «Mi rintocca sulla testa!» lamentò il musicista; «almeno suonasse più piano… io sto proprio lì sotto!». Ebbene, la giudice, con coscienzioso scrupolo, non tralasciò nessun accertamento: una puntuale verifica storica aveva consentito di appurare che l’edificio religioso era stato costruito in epoca precedente rispetto alla pur antica villa. E poiché «lo scopo dei rintocchi è proprio quello di farsi sentire anche da lontano, ovvero per tutta la contrada disposta sul colle a vari livelli, è inevitabile una maggiore intensità sonora nelle zone più vicine».
Tornato a casa, don Leopoldo diede euforico sfogo alla Gloria per annunciare, appunto all’intera contrada, l’evento – speciale – della sua assoluzione nel processo.
Il direttore d’orchestra, furibondo per la sconfitta, spalancò le finestre e, posate le dita sul pianoforte, attaccò il Requiem in re minore di Mozart.
E la gente del paese, sbigottita da quella cacofonia, cominciò a valutare se non fosse il caso di querelare, insieme, il parroco e il direttore d’orchestra. Ipotesi di reato: molestie.
Ricordo il fatto. Come e qui mi ripeto racconto limpido come sai fare tu.
Piccole storie che ti arrivano al cuore.
Complimenti.
Carinissima questa… di sapore quasi antico in questo mondo iperveloce ma che non sa dove andare e gira gira modificando sempre le stesse cose sempre diverse ma sempre uguali e sempre più liquide tanto che si sciolgono tra le mani e ne hai subito bisogno un’altra…. e poi profumo di cultura paesana che non c’è più…L’illustrazione è sempre al top… colpisce nella semplicità..perché è anche profondità..
Sacrosanta verità nel racconto con nomi e personaggi ricorrenti nei nostri paesi . Complimenti Silvana e Grazie per portarci nei ricordi della nostra giovinezza . Paolo
Il tuoi racconti riescono sempre a farmi immergere in luoghi e personaggi a me cari e rivivere tante emozioni e ricordi .
In particolare questo con la chiesa Madonna delle Grazie e il parroco
grande e grosso Don Leo che io ho
ricondotto al Don Amisano .
Grazie Silvana.
Cara Silvana, hai ragione, è una storia che pur rasentando la fantasia, é molto verosimile, ancora oggi in alcune realtà di paesi, si verificano contrasti sul suono e uso delle campane quali mezzi di annunci e cadenze orarie. Complimenti vivissimi per la tua stimolante verve social – popolare. Grazie e saluti.
A scrittura di Silvana Mossano è sempre molto godibile.Ho letto anche il suo libro ‘Mio padre suonava l armonica ‘ e mi è piaciuto moltissimo.