“Il destino di Felice”, autore Lorenzo Panizzolo, edito da BiDiGi editoria, seconda edizione agosto 2024, pp.233. In una frase: un romanzo avvincente e ricco di umanità.
Nel romanzo “Il destino di Felice” lo scrittore Lorenzo Panizzolo racconta vicende che si svolgono tra l’inizio di aprile e fine giugno 1918, a Fagarè di San Biagio di Callata (Treviso), sulla riva destra del fiume Piave, noto come “Fagarè della Battaglia”.
Lo scrittore Lorenzo Panizzolo
Lorenzo Panizzolo (classe 1951), padovano, ha sempre lavorato nella pubblica amministrazione, ha svolto per venticinque anni incarichi dirigenziali nel Comune di Padova, da ultimo è stato comandante della polizia locale; nel 2022 ha esordito come romanziere con “Mi chiamano Santo”, la storia di un apprendista meccanico di biciclette a Padova, nel biennio 1944-1945. Con la stessa casa editrice, BiDiGi, l’anno successivo è uscito “Il destino di Felice”.
Protagonista è Don Felice, un giovane parroco di campagna inviato al fronte come cappellano militare presso il 201° reggimento di fanteria. Il prete è dapprima turbato e confuso, ha sentito dire che la disfatta di Caporetto (fine ottobre 2017) è stata colpa della vigliaccheria dei fanti, eppure lui intuisce “che i fanti che ha attorno sono solo pedine, acini gonfi che cedono la vita per fare insieme il vino, carne da cannone sconosciuta alla Storia.” (p. 7).
Don Felice sa anche che la maggior parte dei soldati è costituita da “contadini in divisa abituati da sempre ad ubbidire all’autorità, prima del padre e poi del comandante” (p.7), e, da figlio di contadini, ne conosce la mentalità.
Il cappellano ha un grado equiparato a quello del tenente e, quando Felice indossa per la prima volta l’uniforme, pensa a suo padre Vittorio: sarebbe contento e orgoglioso, “certo non come quando è nato. Allora era proprio felice – e così lo ha chiamato – perché è arrivato dopo sei femmine. Per la verità in casa quel figlio lo volevano battezzare Settimo, ma Vittorio non era d’accordo, per via che poi potevano prenderlo per il culo chiamandolo, ogni due per tre, ‘settimo non rubare’, come dice il comandamento. E così ha preso il nome di Felice” (p.9).
La sua precoce vocazione sacerdotale era stata individuata e incoraggiata dal parroco del paese, anche se Vittorio aveva opposto resistenza nel rinunciare alle uniche altre due braccia maschili della famiglia; al che il parroco era stato categorico: “Non lamentatevene, che ogni volta che levate le braghe la vostra sposa resta gravida” (p.10). Così il bambino partirà per il seminario di Padova e, in casa sua, nasceranno altri due maschi.
Il comandante del 201° reggimento, il colonnello Germanis, accompagna don Felice a visitare le trincee; “Bastano pochi gradini per scendere più di due metri sotto terra; la trincea, larga oltre un metro, è lunga, sembra non finire mai… per uscire allo scoperto e andare verso il fiume i soldati usano delle scalette di legno… sul lato opposto si aprono ricoveri bui come caverne, con il soffitto e le pareti rinforzati da travi di legno… in quei ricoveri i soldati dormono, mangiano e passano il tempo nell’attesa di ordini…il sole, nelle giornate chiare, si vede solo a mezzogiorno… chissà che tortura è per il contadino soldato stare lì dentro, abituato agli spazi dei campi, coltivati fino all’orizzonte, ai profumi e ai colori delle stagioni…” (pp. 17/18).
Il primo contatto di Don Felice con la realtà della guerra è intenso, però non si sente neppure un colpo di arma da fuoco: per fortuna sono giornate tranquille.
E’ un bel mattino di primavera quando, improvvisamente, il giovane prete si trova sotto un cannoneggiamento: dapprima un sibilo lontano che si avvicina in fretta, poi un ufficiale lo spinge a terra e lo abbraccia. Don Felice si sente protetto dalla trincea, ma lo scoppio fortissimo, il terreno che trema sotto i piedi, la tempesta di sassi, terra e schegge, e ancora pietre, polvere e fumo in breve lo paralizzano, lo terrorizzano, la paura lo attanaglia, cerca solo di respirare.
L’ufficiale solleva di peso il prete, lo tira in piedi e lo porta dentro al più vicino ricovero/caverna “che è pieno di soldati, sono seduti uno accanto all’altro in modo da occupare i posti più interni e quindi più sicuri, come fanno i cuccioli quando avvertono la presenza del predatore” (p. 25).
Il terrore così violento e prolungato e la consapevolezza che i soldati si siano accorti delle sue condizioni gli fanno provare vergogna: “Il cappellano militare se l’è fatta sotto al primo bombardamento, ecco un altro magna pan a tradimento” (p. 31/32). Dopo una notte insonne si lava e si rade, “il volto è tornato normale. Ma si sente pagliaccio dentro” (p. 32).
Don Felice ha assoluto bisogno di un consiglio da parte del Rettore del seminario di Padova, e questo breve viaggio risulterà decisivo per il futuro del giovane sacerdote.
La guerra intanto continua a mietere vittime innocenti, in una spirale che sembra, allo stesso tempo, assurda e logica: la pura e semplice logica del male.
Giugno 1918: l’esercito austroungarico sta per produrre il suo massimo sforzo bellico, scatenando un massiccio attacco alle linee italiane. Dal 15 al 24 giugno sarà combattuta la “battaglia del solstizio”, che risulterà decisiva per le sorti della guerra e costituirà la premessa per la vittoria finale dell’Italia. I soldati italiani, infatti, non solo resisteranno all’urto, ma respingeranno le forze austroungariche, che conteranno circa 120.000 perdite contro le circa 90.000 italiane.
20 giugno 1918, Don Felice è ancora in prima linea, è sempre in movimento, porta cibo e munizioni “consegna quel che serve a far vivere e quel che serve a dare la morte” (p. 213). Un soldato del 201° reggimento, il fante Giuseppe, ha la casetta lì vicino, proprio nel borgo dove sono accampati, ha passato i quaranta, la famiglia è sfollata in Emilia, i commilitoni lo chiamano Checco Beppe, perché è vecchio e anche per burla nei confronti dell’ex imperatore d’Austria (Francesco Giuseppe, morto del 1916). Giuseppe lo sa che non può allontanarsi, lo sa che gli austriaci sono vicini…, ma è così vicina la sua casetta… solo pochi minuti… il cappellano se ne accorge e va a cercarlo…
Lorenzo Panizzolo ha uno stile narrativo agile e accattivante; la trama del romanzo incuriosisce il lettore (letteralmente) dalla prima all’ultima pagina, è un libro ricco di rispetto e di compassione per le persone e inflessibile nei confronti della guerra.
Non sono risparmiati, specialmente nel racconto delle azioni belliche, il dolore e la crudezza, ma è un realismo privo di truculenza, perché prevale la solidarietà umana. Mi sono piaciuti i numerosi e brevi spunti di riflessione, alcuni poetici, di quella poesia semplice e contadina, che fa bene al cuore. Finale: quando ho visto la copertina mi è venuta subito in mente la famosissima canzone “La guerra di Piero” di Fabrizio De André (“mille papaveri rossi”); Panizzolo è stato bravo a dare anche a questa immagine un ruolo, breve, ma fondamentale, nel testo di questo bel romanzo.
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Ho letto con curiosita’ la recensione lasciandomi coinvolgere dal ruolo di questo giovane prete- cappellano.Subito ho pensato al beato Pollo cappellano militare della diocesi di Vercelli,anche lui prodigo nel portare aiuto concreto e conforto ai militari belligeranti e feriti.GRAZIE!
Mi sono goduto il tuo commento che ha fatto affiorare tanti ricordi dei racconti di mio nonno contadino che quella guerra l’ha combattuta ed e’ stato tra i superstiti. Grazie Sergio bravo come sempre.
Ho letto con curiosita’ la recensione lasciandomi coinvolgere dal ruolo di questo giovane prete- cappellano.Subito ho pensato al beato Pollo cappellano militare della diocesi di Vercelli,anche lui prodigo nel portare aiuto concreto e conforto ai militari belligeranti e feriti.GRAZIE!
Mi sono goduto il tuo commento che ha fatto affiorare tanti ricordi dei racconti di mio nonno contadino che quella guerra l’ha combattuta ed e’ stato tra i superstiti. Grazie Sergio bravo come sempre.