E, intanto, sono passati sedici anni: sedici anni di processi, da un’aula di giustizia all’altra. Le stesse facce che resistono, tranne quelle che, nel frattempo, non hanno rinunciato, ma se ne sono andate. Sono stati sedici anni indispensabili, in cui si è ricostruita l’epopea dell’amianto: un lungo pezzo di storia economica, industriale e sociale proiettata dal microcosmo di Casale Monferrato al macrocosmo mondiale. E in questa ricostruzione tutti siamo cresciuti. Non siamo più quelli del 2009, quando iniziò il primo Maxiprocesso Eternit. No. Abbiamo imparato, come dire, a conoscere e a conoscerci. È stato utile. Sì, è stato utile alla collettività casalese (che ha scoperto cose che non avrebbe mai potuto sapere se non fossero state tirate fuori con certosina diligenza dallo sforzo investigativo, prima, e, poi, dal confronto tra testimonianze, documenti, consulenze tecniche) e utile pure a lei, Signor Schmidheiny (che non avrebbe potuto conoscere questa gente addolorata, dignitosa e munita di forza d’animo). E, allora? Adesso che facciamo? Lasciamo tutto com’era? Come se questi sedici anni non fossero trascorsi? No, dobbiamo trovare un senso: si chiama cura per guarire dal mesotelioma, a Casale e in tutto il mondo. Lei lo può fare, signor Schmidheiny: investa in una casa farmaceutica, integri e renda risolutivo lo sforzo che molti ricercatori già stanno facendo. È il suo più grande riscatto etico. Secondo me, lo deve fare. Sa, Signor Schmidheiny, che cosa sto pensando (e spero)? Che lei ci stia pensando (davvero).
Delle oltre seicento pagine scritte dalla Corte d’Assise d’Appello di Torino per spiegare i motivi che l’hanno fatta decidere di condannare a nove anni e mezzo di reclusione Stephan Schmidheiny – riconosciuto colpevole di omicidio colposo per i casalesi morti di mesotelioma – la metà comprendono le schede contenenti la dettagliata analisi di ogni singolo caso: ogni vita spezzata dall’amianto, soffocata dalla «puvri», come la si chiama da queste parti. E, se dici «puvri», qui tutti capiscono.
Non per tutte le vittime, secondo la Corte, si è potuto stabilire che la malattia ha avuto origine dalla condotta criminosa dell’imputato. Perché?
- Talora perché le diagnosi di mesotelioma sono state ritenute «probabili» e non «certe» (nelle aule di tribunale bisogna avere i nervi saldi per non scoppiare a piangere quando senti dire che la diagnosi è incerta; chi ha perso qualcuno sa come sono andate le cose: la sentenza l’ha già vista scritta prima in una cartella clinica e poi su una lapide!)
- Talora perché non si è riusciti a stabilire, oltre ogni ragionevole dubbio, che le fibre respirate nel decennio tra il 1976 e il 1986 (quando Schmidheiny era a capo dell’Eternit) siano state determinanti nel causare il mesotelioma
- Talora perché chi si è ammalato abitava oltre i due chilometri dallo stabilimento Eternit, che si trovava tra le case del popoloso quartiere Ronzone e a ridosso del centro storico cittadino.
In sintesi, la Corte d’Assise d’Appello, nel decidere quali casi di morte (indicati nel capo d’accusa) siano, a suo giudizio, imputabili alla condotta di Schmidheiny (e per i quali lo ha condannato) e quali non siano a suo avviso a lui riconducibili (per i quali lo ha assolto), li ha filtrati a uno a uno attraverso una serie di criteri:
- diagnosi di mesotelioma
- individuazione del nesso causale
- rilevanza delle fonti alternative concorrenti (cioè, i siti contenenti polverino o scarti d’eternit presenti nei sottotetti, nelle strade, nei cortili, individuati nei dintorni dei domicili delle vittime)
- ha escluso di ricondurre la causa del mesotelioma alla gestione dell’Eternit nei casi in cui la distanza tra l’abitazione e lo stabilimento superasse i 2000 metri
* * *
Nell’analisi che ci apprestiamo a fare, prendiamo in considerazione i punti cruciali che hanno sviluppato ampio dibattito e drastiche contrapposizioni nel processo Eternit Bis. Era partito come fascicolo unico, incardinato dalla procura della Repubblica di Torino con una contestazione di omicidio doloso (cioè, volontario) per centinaia di morti di mesotelioma imputate all’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny. La sua famiglia (ed egli stesso) per decenni, in Italia e in diversi Paesi, ha gestito l’Eternit, tra le maggiori industrie del mondo impegnate nell’estrazione e produzione di manufatti con amianto.

Proveremo a condurre questa analisi seguendo i ragionamenti dei giudici torinesi che hanno replicato alle doglianze espresse sia dalla procura che dalla difesa nelle impugnazioni della sentenza di primo grado emessa dalla Corte d’Assise di Novara il 7 giugno 2023. Lo faremo riportando stralci testuali delle motivazioni depositate dalla Corte d’Assise d’Appello il 14 ottobre scorso (la lettura del verdetto era avvenuta il 14 aprile 2025).
Questi i punti di approfondimento:
- posizione di garanzia dell’imputato
- elemento soggettivo
- l’inquinamento prodotto dallo stabilimento e dalle fonti alternative
- nesso causale e leggi di copertura
POSIZIONE DI GARANZIA
Semplificando: era Stephan Schmidheiny che decideva se, quali e quanti investimenti erano da fare per mettere in sicurezza l’ambiente lavorativo interno ed esterno? Era lui che ordinava ai dirigenti come comportarsi, come agire e cosa dire nei rapporti con lavoratori, sindacati, politici, giornalisti? In sostanza: era lui il capo dell’Eternit?
La Corte d’Assise d’Appello scrive che più dati probatori «convergono nell’indicare un modello organizzativo verticistico che fa capo all’attuale imputato, il quale non solo scelse di proseguire l’attività produttiva pur nella consapevolezza della pericolosità della sostanza trattata, ma si ingerì in via continuativa nella gestione degli stabilimenti italiani, tra cui lo stabilimento di Casale, onde assicurarsi che a livello locale venissero attuate le strategie di politica aziendale decise a livello centrale, con particolare riferimento della gestione del rischio da esposizione ad amianto».
In altre parole sì, Stephan Schmidheiny era il capo che decideva e ordinava il da farsi.

Tra gli argomenti a riprova della sua gestione diretta, i giudici torinesi fanno riferimento:
- al pluricitato congresso di Neuss, nel 1976, cui furono convocati da Schmidheiny i massimi dirigenti mondiali di Eternit, che rimasero choccati da quanto il capo riferì circa la pericolosità dell’amianto
- e al successivo «manuale operativo AUSL 76, redatto a seguito dell’incontro di Neuss, contenente «chiare e univoche indicazioni operative mediante la definizione delle risposte da utilizzare a seconda del caso specifico»: cioè come i direttori degli stabilimenti dovevano rispondere a chi faceva domande scomode del tipo «perché continuate a produrre con amianto nonostante sia noto che è pericoloso? cosa fate per proteggere i lavoratori e i loro famigliari? perché usate ancora l’amianto blu?». Le risposte da dare andavano da «l’amianto cemento può essere considerato senz’altro un materiale non pericoloso; il fattore decisivo è il fumo delle sigarette; non c’è alcun pericolo per le famiglie».
ELEMENTO SOGGETTIVO
La domanda è: la condotta dell’imputato è stata dolosa o colposa?
Cioè: è responsabile di omicidio volontario (come ha contestato la procura e che su questa doglianza aveva fondato il principale motivo di impugnazione della sentenza di primo grado) o colposo?
La Corte d’Assise di Novara aveva riqualificato il reato da doloso in colposo. E così si è ribadito anche in Appello.
Che cosa scrive la Corte di Torino a questo proposito in replica all’impugnazione della procura?
«L’appello del pm, che lamenta l’erronea riqualificazione dei fatti contestati da omicidi dolosi aggravati in omicidi colposi aggravati, non può essere accolto».

Perché? Scrive la Corte: «La valutazione circa la lontananza della condotta tenuta [dall’imputato, ndr] rispetto a quella standard (in altre parole: le azioni di Schmidheiny rispetto a quanto, a parere della procura, avrebbe dovuto fare, essendo perfettamente consapevole della cancerogenicità dell’amianto, ndr) non può non tenere conto della disciplina normativa vigente all’epoca della gestione dell’impresa da parte dell’imputato, nella quale l’attività di produzione dell’amianto era consentita e lecita (la legge che proibisce l’amianto è del 1992, ndr) e, inoltre, non vi erano limiti normativi circa l’utilizzazione dell’amianto». Prosegue la Corte: «Non vi è stata un’inerzia totale [da parte di Schmidheiny, ndr]: sì, era consapevole «della pericolosità dell’utilizzo dell’amianto, ma non [c’è stato] ancora un atteggiamento tale da ritenere che l’imputato non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento». Secondo i pm, Schmidheiny, consapevole dei rischi gravi per la salute, avrebbe dovuto sospendere l’attività. I giudici torinesi, invece, concordano con i colleghi di Novara ritenendo «sussistente l’ipotesi della colpa cosciente, derubricando l’accusa di omicidio doloso contestata».

Vale la pena riportare altri stralci a proposito dell’elemento soggettivo.
«Deve ritenersi– scrive la Corte – che, tenuto conto delle conoscenze scientifiche e delle reali condizioni in cui operava lo stabilimento di Casale, l’imputato si sia rappresentato che dalla gestione del medesimo e dal suo mantenimento in vita potessero originare numerosi decessi, dovuti e favoriti dalla esposizione continuativa e massiccia dei lavoratori alle polveri di amianto e che, pur prevedendo tali gravi eventi, non abbia fatto quanto in suo potere per evitarli, sottovalutando l’entità del pericolo, fattori che consentono di ritenere integrata l’aggravante della colpa con previsione». Cioè, l’imputato ha agito «sorretto dall’elemento soggettivo della colpa cosciente (…). Avrebbe certamente potuto evitare o ridurre gli eventi verificatisi adottando maggiori cautele e anche ove necessario arrivando a evitare l’utilizzo dell’amianto, così impedendo gli eventi verificatisi».
E quindi? Secondo la Corte di Torino, l’imprenditore svizzero sapeva (che l’amianto è cancerogeno), non ha fatto quel che avrebbe potuto fare per impedire la diffusione indiscriminata di fibre nocive (adottando tecnologie o arrivando a sospendere l’uso di amianto), ma, secondo i giudici, non aveva la precisa volontà di uccidere. Quindi: omicidio colposo aggravato dalla colpa cosciente e non doloso.
INQUINAMENTO DELLO STABILIMENTO E FONTI ALTERNATIVE
La difesa, pur non potendo negare l’evidenza, e cioè
- che lo stabilimento Eternit (esteso su 96 mila metri quadrati) sia stato fonte di diffusione incontrollata di polvere d’amianto,
- così come è innegabile che lo siano stati i magazzini di piazza d’Armi,
- e ancor più l’area ex Piemontese (22 mila metri quadrati), sempre al Ronzone, dove si frantumavano a cielo aperto, 24 ore su 24, gli scarti di produzione provenienti da tutte le fabbriche italiane per reimmettere in produzione questi cascami attraverso il mulino Hazemag,
- e non potendo altresì negare che i camion, per lo più senza teloni di protezione, andavano avanti e indietro tra le case, a ridosso del centro, trasportando in una direzione i sacchi di amianto e in quella contraria i manufatti finiti (che ogni tanto cadevano per strada frantumandosi)
ecco, pur non potendo negare queste evidenze – emerse da molte testimonianze, oltre che da numerosi documenti ispettivi e da perizie -, la difesa aveva provato a spostare l’obiettivo sulle cosiddette «fonti alternative» di polverosità nella città di Casale e dintorni, anche note come «usi impropri».
Stiamo parlando degli scarti di produzione che, a lungo, furono utilizzati per fare rappezzi o sottofondi di strade e piazze, e dell’ancor più pericoloso «polverino», impiegato per coibentare i sottotetti e per livellare campi sportivi (di calcio, di bocce, degli oratori parrocchiali etc.), o cortili, aie, sagrati delle chiese.
Perché s’è detto che il polverino è «ancor più pericoloso»? Perché non si tratta solo della più generica «puvri», ma degli sfridi della lavorazione dei tubi, per i quali si usava la crocidolite o amianto blu, ben peggiore per i suoi effetti del già pericoloso crisotilo o amianto bianco, impiegato per realizzare le lastre (onduline).
Per molti anni, vari tipi di scarti di produzione uscirono dallo stabilimento e trovarono ampio impiego negli utilizzi sopra detti. La difesa ha insistito sul fatto che Schmidheiny aveva dato disposizione di vietare la distribuzione di polverino, anche se non c’è prova che questo ordine (scaturito, peraltro, dalla piena consapevolezza della cancerogenicità della crocidolite, di cui mai, però, fu informata la popolazione o le autorità locali) sia stato fatto rispettare.
Comunque, la tesi difensiva è che gli scarti uscirono dallo stabilimento prima della gestione di Stephan Schmidheiny (quindi lui non c’entrerebbe) e che, secondo la consulenza del professor Andrea D’Anna, causarono più inquinamento di quanto non ne avessero provocato – tutti quanti insieme – lo stabilimento (tra l’altro dotato di ventoloni senza filtri), gli ex magazzini, l’area ex Piemontese, la discarica sul Po, i trasporti su strada, le tute degli operai portate a casa impregnate di polvere perché la fabbrica non aveva lavanderia interna.
Questa ostinata «minimizzazione del valore delle emissioni derivanti dallo stabilimento Eternit» da parte di D’Anna non aveva convinto la Corte d’Assise di Novara e nemmeno ci ha creduto la Corte d’Assise d’Appello di Torino che, anzi, condivide «la valutazione svolta dai giudici di primo grado»; questi già avevano stigmatizzato la «ricostruzione “a tavolino” svolta dal consulente della difesa (prof. D’Anna) che [per la sua analisi] si è riferito a generici e astratti dati territoriali» (Google Maps, ndr). I giudici d’appello, ora, bocciano «la sopravvalutazione del consulente della difesa circa l’influenza dei fattori alternativi». E, ancora: «Vi è poi un dato decisivo, concreto e convincente circa l’inattendibilità delle conclusioni derivanti dai calcoli astratti effettuati dal consulente della difesa, i cui risultati inducono a ritenere un’incidenza massima delle fonti alternative e decisamente minima dell’attività produttiva, dal momento che successivamente alla bonifica dello stabilimento Eternit, avvenuta nel 2006, della sponda destra del Po, avvenuta negli anni 2000 e 2001, e dell’area dei Magazzini Eternit, tutti i successivi monitoraggi ambientali condotti dall’Arpa Piemonte dal 2007 non hanno rilevato particolari criticità e la concentrazione di fibre in atmosfera è diminuita a partire dalla chiusura dello stabilimento per poi diminuire ulteriormente con le fasi di bonifica e un miglioramento evidente era stato riscontrato dall’Arpa dopo l’anno 2007 quando non erano ancora state bonificate tutte le sorgenti improprie quali i battuti, le coperture e i sottotetti». A dire che, chiusa la fabbrica nel 1986 e fatte le successive bonifiche (dello stesso stabilimento più gli altri siti industriali pertinenti) l’inquinamento da amianto risultava diminuito, anche se non si era ancora intervenuti nei sottotetti e nei battuti.
Al contempo, spostando l’attenzione sul sito produttivo in attività, la Corte di Torino sottolinea che «le condizioni di dispersione dell’amianto non riguardavano solo l’interno, ma anche significativamente l’esterno». Richiama «testimonianze, unitamente ai rilievi svolti dai vari enti deputati» che «attestano inequivocabilmente la sussistenza di un forte inquinamento ambientale, dato anche dalla quantità e qualità del materiale trattato, oltre che dalla ininterrotta lavorazione dello stesso» (sono richiamate alcune perizie, i numerosi sopralluoghi e relative prescrizioni da parte degli enti ispettivi, le pressanti e rinnovate richieste di adeguamento da parte del consiglio di fabbrica).
Tuttavia, la Corte torinese per stabilire la corrispondenza tra l’inquinamento prodotto dallo stabilimento e l’insorgenza della malattia (specialmente nelle «vittime ambientali»), si sofferma sulle distanze dal sito produttivo. I consulenti del pm Magnani e Mirabelli – anche sulla base degli studi epidemiologici effettuati nell’area di Casale – avevano indicato che fosse rilevante un’esposizione all’amianto anche a 10 chilometri; la Corte d’Assise di Novara si era concentrata invece su un massimo di 5 chilometri. I giudici d’Appello, a loro volta, pur attribuendo a quegli studi «una valenza significativa», riducono la distanza a 2 chilometri, ritendendo convincente la consulenza della difesa svolta dal professor Gary Marsh. L’esperto americano aveva illustrato studi internazionali secondo i quali non si sono «rilevate associazioni significative tra mesotelioma e distanze superiori a 2 chilometri da un impianto di cemento amianto». Ecco perché, oltre ai casi per i quali già la Corte di primo grado aveva assolto Schmidheiny, se ne sono aggiunti altri da parte della Corte di secondo grado, che scrive: «In assenza di dimostrazioni contrarie, non si può ritenere dimostrata, oltre ogni ragionevole dubbio, l’incidenza causale delle emissioni derivanti dall’attività produttiva per le residenze che superano la distanza di 2000 metri, fermo restando che le fonti alternative esistenti entro tale ambito devono essere considerate concorrenti».
NESSO DI CAUSALITA’
Quali persone, indicate nel capo di imputazione, sono state vittime, secondo la Corte d’Assise d’Appello, della condotta criminosa imputata all’imprenditore svizzero?
Giuridicamente è l’aspetto più delicato e controverso.
Che cos’è il nesso di causalità?
È ciò che permette di collegare un evento dannoso (in questo caso le malattie e morti per mesotelioma) a una determinata condotta (in questo caso, quella dell’imputato Schmidheiny, capo gestore della fabbrica d’amianto): si tratta di stabilire, oltre ogni ragionevole dubbio, se le azioni commesse o le omissioni abbiano prodotto come conseguenza quell’esplosione di vittime di mesotelioma.
Per accertare il nesso di causalità, occorre esaminare le cosiddette «leggi di copertura», cioè leggi scientifiche che attestino la probabilità che un determinato evento si verifichi in seguito a una certa condotta.
La Corte, dunque, si è impegnata a verificare l’esistenza di una «legge di copertura» per affermare che l’evento (malattia-morte) è stato conseguenza dell’azione (o omissione) da parte dell’imputato e che, senza quell’azione/omissione, le vittime non si sarebbero ammalate e non sarebbero morte.
La questione della scienza che entra nei tribunali è spinosa non soltanto nel caso del processo Eternit Bis.
La Cassazione se n’è già occupata e la Corte d’Assise d’Appello di Torino ha aderito scrupolosamente ai criteri indicati in una sentenza del 2018, nel capitolo intitolato «Il giudice, le parti e il sapere esperto».
Che cosa dice la Suprema Corte? «Al giudice è precluso farsi creatore della legge scientifica necessaria all’accertamento; poiché egli è portatore di una “legittima ignoranza” a riguardo delle conoscenze scientifiche, si tratta di valutare l’autorità scientifica dell’esperto che trasferisce nel processo la sua conoscenza della scienza; ma anche di comprendere, soprattutto nei casi più problematici, se gli enunciati che vengono proposti trovano comune accettazione nella comunità scientifica». Non solo; la Cassazione ha fornito indicazioni anche sulla credibilità dei consulenti chiamati in aula di giustizia: «E’ di preminente rilievo – scrive – l’identità, l’autorità indiscussa, l’indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, e le finalità per le quali si muove».
In sostanza, il giudice non è uno scienziato e sarebbe presuntuoso da parte sua decidere qual è la legge scientifica idonea a spiegare determinati accadimenti. E dunque? Deve innanzi tutto interpellare gli esperti che illustrino le leggi scientifiche e poi scegliere attenendosi all’autorevolezza e alla massima condivisione della comunità scientifica.
Pertanto, per riconoscere un imputato responsabile del reato contestato, è fondamentale che «sia acquisito, oltre ogni ragionevole dubbio, che la legge di copertura [individuata] sia riconosciuta dalla comunità scientifica come quella maggiormente accreditata. Il che non richiede di escludere l’esistenza di ogni tesi avversa o divergente, ma impone soltanto di dare dimostrazione della marginalità delle altre tesi in circolazione».
Riportata questa rigorosa premessa, i giudici torinesi condividono l’affermazione della professoressa Irma Dianzani, secondo cui «il processo di cancerogenesi multistadiale (cioè lo sviluppo del mesotelioma attraverso varie fasi, nel tempo, ndr) è quello a oggi accertato dalla comunità scientifica e viene riportato sui più consultati libri di testo di Medicina».
Inoltre, si associano al principio secondo cui “tutte le dosi contano” che «è espressione della relazione dose-risposta, ove per dose si intende l’esposizione cumulativa comprensiva di intensità e durata. La relazione dei consulenti del pm – prof. (Corrado) Magnani e dottor (Dario) Mirabelli – dà conto nel dettaglio degli studi su cui si fonda tale impostazione, per arrivare ad affermare che l’amianto come cancerogeno completo incide sia sulla fase di iniziazione (cioè sul momento in cui la prima cellula si ammala) sia sulla fase di promozione del tumore (cioè sulla moltiplicazione delle cellule maligne fino alla formazione del tumore, autonomo nella crescita, ma ancora asintomatico, ndr)». Vengono richiamate le affermazioni della prof. Dianzani: «L’incidenza dei tumori dovuti all’esposizione aumenta sia con il protrarsi [dell’esposizione] che con l’aumento della sua intensità e non esistono né una soglia di esposizione al di sotto della quale vi sia assenza di effetto né un limite oltre il quale ulteriori incrementi di esposizione siano privi di effetti».
Che cosa vuol dire nel caso specifico? Che in un individuo il processo cancerogeno può essere iniziato anche prima del periodo di gestione di Schmidheiny (per via di esposizioni all’amianto avvenute negli anni precedenti al 1976), ma le dosi aggiuntive, respirate nel decennio in cui lui era a capo di Eternit, hanno comunque incrementato l’evoluzione della lesione.
Non solo. «Strettamente correlato al principio secondo cui “tutte le dosi contano” – si legge nelle motivazioni della sentenza – è il principio dell’effetto anticipatore, che descrive qual è in concreto l’incidenza causale delle esposizioni successive, individuata, sulla base di studi condivisi, nella accelerazione della malattia e, conseguentemente, nell’anticipazione della morte». A dire che, quand’anche la mutazione delle cellule sane in cellule cancerogene sia già partita nell’organismo, se continua l’esposizione all’amianto lo sviluppo del mesotelioma subisce un’accelerazione anticipando così la morte, che sarebbe invece avvenuta anni dopo.
I giudici riprendono anche lo stralcio di un documento pubblicato nel 2020 dall’Associazione Italiana di Epidemiologia secondo cui «l’aumento dell’esposizione cumulativa ad amianto comporta l’aumento del rischio tumorale».
Ma i consulenti della difesa hanno sempre obbiettato che si è trattato di affermazioni basate sulla epidemiologia, che è una scienza statistica, non applicabile, a loro avviso, al singolo individuo.
I consulenti del pm, invece, hanno replicato a loro volta che è appunto sulla scienza epidemiologica che si basa, ad esempio, la ricerca farmacologica, e che la dimostrazione di efficacia delle terapie – studiate, testate e alla fine utilizzate per i singoli individui – parte proprio dagli studi epidemiologici.
Nel contradditorio sulla efficacia dell’epidemiologia, mancava la prova biologica, che si è ottenuta «in un recentissimo studio di laboratorio [Studio di Faradhman], illustrato dal prof. Magnani. Gli esiti sono stati pubblicati nel 2023 e quindi non c’erano ancora quando si è svolto il processo Eternit Bis di primo grado».
È lo studio effettuato su topi di laboratorio. «I topi sono stati “ingegnerizzati” (cioè il dna è stato modificato a scopo di ricerca, ndr) in modo che tutti fossero destinati a morire di mesotelioma; indi, sono stati divisi in due gruppi e nei topi di uno dei due gruppi è stato iniettato amianto nella pleura (il prof. Magnani ha spiegato che l’effetto dell’iniezione è identico a quello dell’inalazione)».
Che cosa hanno osservato i ricercatori? Che «tutti i topi del primo e del secondo gruppo sono morti a causa del mesotelioma, ma i topi appartenenti al gruppo trattato con iniezioni di amianto sono morti prima rispetto ai topi del secondo gruppo».
Poi, «i ricercatori hanno anche effettuato l’autopsia dei topi, riscontrando come [in quelli trattati con la dose aggiuntiva di amianto] la malattia fosse più diffusa sia nella sede polmonare sia sulla parete toracica che è quella da cui il mesotelioma parte».
Pertanto, «i risultati dello studio di Faradhman forniscono prova di un fenomeno biologico del tutto corrispondente ai dati elaborati sulla base dell’osservazione epidemiologica», cioè le dosi aggiuntive di esposizione all’amianto contano e fanno ammalare prima. Il prof. Magnani, a domanda specifica della Corte, ha risposto senza esitazione: «Mi sento di dire che è una legge universale, in scientifichese è una legge e basta»: in caso di aumento di intensità e/o durata dell’esposizione, immancabilmente nei soggetti destinati ad ammalarsi di mesotelioma si verifica un’accelerazione della malattia.
CONCLUSIONI
Chiare e dirimenti le conclusioni della Corte d’Assise d’Appello, in cui ha enunciato le «leggi di copertura riconosciute dalla comunità scientifica come maggiormente accreditate» attraverso cui ha poi esaminato caso per caso e deciso, per ognuno, se la responsabilità della loro morte fosse riconducibile all’imputato.
Eccole:
- il mesotelioma è malattia cagionata da esposizione ad amianto:
- il processo di cancerogenesi è processo multistadiale;
- l’amianto è sostanza cancerogena in grado di agire su diverse fasi del processo di cancerogenesi;
- ai fini dell’insorgenza del mesotelioma, rilevano [sono determinanti, ndr] sia la durata sia l’intensità dell’esposizione subita fino al completamento della fase di induzione [cioè quando il cancro si è ormai sviluppato e, benché non ancora visibile e diagnosticabile, è irreversibile]
- a un aumento dell’esposizione corrisponde un’accelerazione della malattia e, conseguentemente, l’anticipazione dell’evento morte;
- non è individuabile il momento in cui si completa l’induzione, che segna il limite delle esposizioni rilevanti;
- nella comunità scientifica è condivisa la stima della durata della fase preclinica [che va dalla fine dell’induzione alla diagnosi – quando il mesotelioma diventa visibile e diagnosticabile] in 10 anni.
VERDETTO FINALE
Pertanto, la Corte d’Assise d’Appello ha riconosciuto Stephan Schmidheiny responsabile del reato di omicidio colposo pluriaggravato e lo ha considerato colpevole per 91 vittime, rispetto agli iniziali 392 casi elencati nel capo di imputazione, che si sono ridotti per effetto delle prescrizioni e delle assoluzioni. Da qui il motivo della conseguente riduzione matematica della condanna da 12 anni di reclusione (in primo grado) a 9 anni e mezzo di reclusione (in secondo grado).
Le prescrizioni: tra la sentenza di Novara del 7 giugno 2023 e quella d’appello pronunciata il 17 aprile di quest’anno, 19 casi hanno maturato i tempi di prescrizione cui la Corte di Torino ne ha aggiunti altri 8 che, secondo i propri conteggi, risultavano già prescritti prima del giugno 2023.
Le assoluzioni: già la Corte di Novara (per i motivi spiegati sopra, filtrati dai criteri indicati nel paragrafo delle Conclusioni) aveva assolto Schmidheiny in riferimento a 46 casi di morte; la Corte d’Assise d’Appello ha aggiunto l’assoluzione per altri 29 casi, restringendo le maglie della griglia da 10 chilometri di distanza dallo stabilimento («pur avendo una valenza significativa, data dagli studi statistici condotti nella zona di Casale Monferrato»).
A mio parere la tristissima verità e’ che imprenditori e dirigenti aziendali colpevolmente e scandalosamente perché pur consapevoli della pericolosità dell’amianto hanno privilegiato il business delle aziende alla salute e alla vita dei lavoratori. In poche parole dal loro operato l’unica conclusione era che anche se i lavoratori si ammalano o addirittura muoiono si possono sostituire e quindi perché rinunciare alla reddivita’ dell’azienda per tutelare la salute dei lavoratori?????
Grazie Silvana, sei riusciuta a rendere estremamente chiari passaggi complessi anche per gli addetti ai lavori (mi riferisco in particolare all’illustrazione del nesso di causalità e al ragionamento che la Corte ha fatto coerentemente con la pronuncia della Cassazione del 2018.
Un abbraccio
rosalba