SILVANA MOSSANO
I difensori Astolfo Di Amato e Guido Carlo Alleva, hanno impugnato la sentenza di primo grado nel processo Eternit Bis. L’imputato Stephan Schmidheiny, da loro assistito, è stato condannato a 12 anni di reclusione, più 5 di interdizione dai pubblici uffici. Era stato incriminato per omicidio volontario (con dolo eventuale) di 392 monferrini morti per il mesotelioma causato dall’amianto. La Corte d’Assise di Novara ha riqualificato il reato contestato in omicidio colposo plurimo e aggravato e per questo reato all’imputato è stata inflitta la pena anzidetta relativamente a 147 vittime; ma la riqualificazione ha comportato, come conseguenza, anche la prescrizione per 199 decessi avvenuti più di 15 anni fa; per altri casi 46 di morte, poi, i giudici di primo grado hanno assolto l’imputato.
Il dispositivo del verdetto, letto in aula il 7 giugno 2023, è stato motivato in una successiva relazione di 1020 pagine, depositata a inizio dicembre scorso dalla Corte d’Assise presieduta da Gianfranco Pezone, affiancato dal giudice a latere Manuela Massino più sei giudici popolari. Sia i pubblici ministeri che i difensori, ora, hanno impugnato la sentenza di primo grado e si preparano al processo di secondo grado in Appello, il cui inizio potrebbe essere fissato entro quest’anno.
Qui di seguito riportiamo i passaggi che reputiamo salienti delle tesi su cui si fonda l’impugnazione dei difensori. In un articolo a parte – pubblicato su questo sito www.silmos.it nella stessa data e orario – si riportano, analogamente, i punti chiave dell’impugnazione dei pm (al fondo, il link).
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LA RICHIESTA DEI DIFENSORI AI GIUDICI D’APPELLO
«Nel merito: si assolva Stephan Schmidheiny da tutti i reati ascritti con formula ampia, non potendosi che giungere alla conclusione della impossibilità di affermare con la dovuta certezza che l’esposizione asseritamente patita dalle persone offese nel periodo di riferimento dell’imputato (1976-1986, ndr) sia stata condicio sine qua non della patologia di cui le stesse sarebbero state affette e che le condusse alla morte». In subordine, qualora fosse confermata la decisone di primo grado, «rideterminare la pena nel minimo, con riconoscimento delle attenuanti generiche e concessione dei benefici di legge (sospensione della pena e non menzione, ndr)». E’ questa la richiesta conclusiva che la difesa rivolge alla Corte d’Assise d’Appello di Torino, avanti alla quale si svolgerà il filone casalese del processo Eternit Bis di secondo grado.
I legali Di Amato e Alleva contestano la sentenza dei giudici di Novara quasi totalmente, fatta eccezione per alcuni passaggi in cui la Corte d’Assise concorda con la difesa.
Ma ai difensori non basta (anzi, definiscono la sentenza «piena di passaggi a volte illogici a volte contradditori») perché, appunto, nella analitica trattazione dei motivi di impugnazione, spiegano l’obbiettivo cui tendono: dimostrare che Schmidheiny è innocente rispetto a quelle morti e va assolto. Bene inteso: gli avvocati Di Amato e Alleva non negano le morti di mesotelioma (né che l’amianto sia la causa di questo tipo di tumore, come acclarato scientificamente), ma negano che siano riconducibili a una condotta scorretta (pur colposamente, meno che mai dolosamente, dal loro punto di vista) del loro assistito che, anzi, affermano, ha attivato un «flusso finanziario di 70 miliardi di lire, somma all’epoca assai rilevante e tale da qualificare come serio l’impegno di Stephan Schmidheiny di favorire una lavorazione sicura del processo produttivo».
AMIANTO IN SICUREZZA
Questo è uno degli aspetti su cui si insiste: la possibilità, secondo le conoscenze dell’epoca, di lavorare l’amianto in sicurezza. Scrivono i legali che, in quegli anni, addirittura «si credeva che il mesotelioma fosse collegato all’asbestosi che dipende da esposizioni massicce»: c’era il convincimento, secondo la tesi difensiva, che «evitando esposizioni massicce e rispettando i limiti previsti per l’asbestosi, fosse possibile evitare i tumori polmonari e i mesoteliomi». Affermazione che, soprattutto nello specifico per i mesoteliomi, non troverebbe conferme nel mondo scientifico.
I legali, tuttavia, insistono: Schmidheiny, dopo il convegno di Neuss, «ha fornito tutti i mezzi necessari affinché negli stabilimenti si realizzassero le condizioni all’epoca ritenute sufficienti per una lavorazione sicura dell’amianto».
C’è da domandarsi, tuttavia, come mai, a fronte dell’impiego di quei «mezzi necessari» e ritenuti «sufficienti», nel decennio di gestione Stephan Schmidheiny furono comunque assai numerosi i rilievi di inadempienze rispetto al livello di polverosità della fabbrica evidenziati e contestati da enti di controllo (ad esempio, le centinaia di prescrizioni impartite all’Eternit dall’Ispettorato del Lavoro nel periodo di gestione di Stephan Schmidheiny). E giova ricordare, altresì, la più volte citata relazione del professor Michele Salvini, dell’Università di Pavia, nominato perito dal giudice del lavoro di Casale nel 1983: l’esperto aveva confermato la polverosità oltre i limiti delle leggi dell’epoca. La difesa, per contro, sostiene, a questo proposito, che «allora vi era una palese difficoltà tecnica nell’accertare il numero delle fibre di amianto normate nell’aria e mancavano modi di procedere codificati».
LE CONOSCENZE DELL’EPOCA
Di Amato e Alleva scrivono che «nel declinare le “condotte doverose”, la Corte di Novara parla di inadeguatezza delle misure adottate, insufficienza dei mezzi apprestati, gravità delle emissioni, giudicando, sostanzialmente, l’imputato responsabile di non avere fatto abbastanza. Che cosa sarebbe stato abbastanza?» è il loro interrogativo. «Quale sarebbe stata la condotta “idonea” a impedire il decesso delle persone?». Proseguono nel ragionamento: «Oggi sappiamo che non c’è limite di polverosità che tenga quando si parla di amianto», ma, nel decennio di gestione di Schmidheiny, se pure si fosse contenuta la polverosità entro i limiti «non può affatto escludersi che i decessi si sarebbero comunque verificati». Questa la tesi difensiva.
Quanto all’inquinamento esterno, rispetto alla grave attività di prefrantumazione degli scarti che si svolgeva, a cielo aperto, nell’area ex Piemontese, la difesa richiama il contenuto di un documento del 16 maggio 1980, diramato dal Centro ricerche di Neuss (sotto l’egida di Schmidheiny e diretto dal professor Robock) in cui si disponeva di «eseguire l’attività di prefrantumazione degli scarti mediante processo a umido». Cosa che, in realtà, non è avvenuta e chi ha impartito l’ordine dall’alto ha omesso di verificarne l’adempienza: infatti, nell’area, affacciata su via Oggero, nel cuore del popoloso quartiere Ronzone, la ruspa passava avanti e indietro sui rottami (fatti convergere da tutti gli stabilimenti Eternit italiani, per utilizzarlo nel mulino Hazemag in funzione solo a Casale) sollevando un gran polverone continuo. Lo affermano più testimoni. Ma i legali mettono in dubbio l’efficacia delle testimonianze e citano studi psicologici in base ai quali i ricordi dei testi sarebbero, in generale, «inaffidabili». Scrivono: «Il decorso del tempo è idoneo ad alterare significativamente, in modo del tutto fisiologico, i ricordi rendendoli inattendibili. È evidente che tale inattendibilità finisce con il segnare irrimediabilmente i ricordi che riguardano fatti verificatesi in epoca molto lontana nel tempo, come sarebbe per i ricordi dei testi di questo processo».
Affidabili o no, nessuno ha mai menzionato che la prefrantumazione avvenisse a umido. Di chi la colpa se quell’attività, intensa e prolungata, si faceva, diciamo così, alla come viene viene? Per i difensori, al più, la responsabilità, se c’è stata, fu di chi non faceva rispettare le indicazioni provenienti dalla Svizzera e dal Centro di ricerca di Neuss, diretto dal professor Robock; non colpa di Schmidheiny, sottolineano Di Amato e Alleva, in capo al quale era il potere di direzione e di coordinamento di un «gruppo articolato in oltre mille società e 70 stabilimenti».
USI IMPROPRI
La difesa insiste sull’intensità dell’inquinamento da amianto distribuita su tutto il territorio per via dei cosiddetti «usi impropri». «Il territorio di Casale è stato letteralmente riempito di amianto (polverino per coibentazioni di sottotetti e scarti per battuti di cortili e strade, ndr) nei settant’anni che hanno preceduto la assunzione di responsabilità della Eternit da parte di Schmidheiny». A dire che «tutti i cittadini casalesi, muovendosi, sono venuti a contatto con quelle fonti alternative» che, a parere dei consulenti della difesa, pesano di più (o comunque non meno) dello stabilimento Eternit, dell’area di frantumazione ex Piemontese, dei magazzini in piazza d’Armi, della discarica, della «spiaggetta» su Po, dell’andirivieni di camion per le strade cittadine carichi di materia prima o di manufatti finiti.
Di conseguenza? In questo quadro complessivo, i legali sostengono che il loro assistito «è stato individuato come capro espiatorio per l’attività produttiva che ha preceduto il suo arrivo e che ha prodotto conseguenze nefaste». Invece, Di Amato e Alleva affermano che Schmidheiny è colui che «ha investito risorse economiche e tecniche per garantire una produzione sicura».
DIAGNOSI
Ampio spazio, nei motivi di impugnazione, viene dedicato all’esame, caso per caso, delle vittime, entrando nel merito della certezza, probabilità o possibilità della diagnosi e, poi, anche della fonte di esposizione che, in praticamente tutti i casi, viene ricondotta più ai cosiddetti «usi impropri» sparsi sul territorio che alla attività dello stabilimento Eternit. Anche perché la difesa stigmatizza l’indeterminatezza delle distanze dalle fonti espositive tenute in considerazione dalla Corte d’Assise.
Viene poi ribadito (come già affermato nel corso del processo) che «l’approccio qualificato come “logico” dall’accusa (e condiviso dai giudici) di passare dal risultato epidemiologico a quello singolo» è, a parere dei legali, «scientificamente errato, contradditorio e, di fatto, inconcludente».
Respinte anche le tesi accusatorie, accolte invece dalla Corte d’Assise, in merito alla cosiddetta «teoria multistadio», alla «dose cumulativa» (ossia tutte le esposizioni all’amianto successive a quella iniziale rivestono un ruolo determinante nello sviluppo del mesotelioma), all’«anticipazione della malattia».
CONDANNA E QUESTIONI CIVILISTICHE
Dicono i legali di Schmidheiny: «La sentenza di condanna viola il principio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio». E ancora: «La determinazione della pena applicata all’imputato è evidentemente erronea».
Di Amato e Alleva, riprendendo argomentazioni già esposte in sede di eccezioni preliminari, contestano l’ammissione alla costituzione di parte civile di diverse associazioni ed enti e, inoltre, definiscono, «indebita» la moltiplicazione delle condanne risarcitorie ad esempio alle varie sedi delle sigle sindacali (locale, provinciale, regionale…).
Anche in merito alla parte civile Afeva, la difesa, sottolineando che l’associazione casalese che riunisce famigliari e vittime dell’amianto si è costituita nel 1988 (e quindi successivamente alla chiusura dello stabilimento, avvenuta nel 1986, «quando ormai la condotta dell’imputato era esaurita»), esclude che sia ravvisabile un danno di immagine causato dai reati di omicidio colposo, reati per i quali invece l’imputato è stato condannato. Anzi, scrivono i legali, «tali decessi, al contrario, hanno rappresentato l’occasione per la realizzazione dello scopo statutario e per l’affermazione tra i consociati dell’associazione in questione». Una tale motivazione parrebbe far ritenere che siano state le morti per amianto a conferire ad Afeva una ragione di esistere?
I legali dell’imputato dedicano poi tre pagine a contestare le provvisionali, riconosciute dalla Corte d’Assise di Novara alle parti lese, per il cosiddetto «danno catastrofale», anche chiamato «danno morale terminale» o «danno da lucida agonia». I difensori ne forniscono una dettagliata definizione, riconducendolo alla consapevolezza da parte del malato di mesotelioma di «avvertire l’ineluttabile approssimarsi della propria fine» ed è risarcibile a prescindere dall’intervallo di tempo tra la diagnosi e il decesso. Poi, Di Amato e Alleva richiamano una sentenza del Tribunale di Ravenna (9.11.2021) e virgolettano: «Il danno morale terminale va verificato caso per caso ed è risarcibile solo ove la vittima abbia avuto la consapevolezza della morte imminente»; chi richiede il risarcimento, quindi, deve «dimostrare la sofferenza e lo stato di consapevolezza della vittima prima del decesso». Secondo la difesa, invece, la Corte d’Assise di Novara avrebbe sbagliato a concedere questa provvisionale perché «le parti civili non avevano fornito alcun elemento dal quale desumere una lucida agonia in capo alle vittime».
Arduo fare un commento. Solo una domanda: ma l’hanno mai incontrato un malato di mesotelioma?
«CONCORSO COLPOSO DI STATO E COMUNE»
C’è altro. I difensori affermano che, anche a voler ammettere una responsabilità di Stephan Schmidheiny, «la Corte d’Assise ha completamente omesso di considerare che vi è stato il concorso colposo degli enti territoriali nella causazione del danno, patrimoniale e non patrimoniale, lamentato dai medesimi enti territoriali e riconosciuto in sentenza». In che senso? Ecco la spiegazione della difesa: «Lo Stato italiano e le autorità locali hanno tollerato che il territorio casalese venisse, per molti anni, contaminato dal materiale di scarto di produzione che, anteriormente al 1976, veniva diffusamente e comunemente distribuito alla popolazione e impiegato» per coibentazioni e sottotetti.
Senza contare, come viene richiamato più volte, che la legge che vieta l’amianto è del 1992, con «gravissimo ritardo con cui l’Italia ha recepito la direttiva 83/477 Cee sulla tutela dei lavoratori contro i rischi connessi all’esposizione all’amianto».
E’ indubbio: l’amianto in Italia è stato legale fino al 1992. Ciò su cui si sorvola sono, però, le pressioni delle lobby mondiali dell’amianto sui vari governi per ritardare provvedimenti cautelativi e restrittivi come suggerito dalla scienza. Anzi, l’industria coniò un neologismo elusivo per definire il prodotto: l’ordine fu di non chiamarlo più cemento-amianto, ma si adottò il vocabolo fibrocemento, in modo da omettere la parola amianto. E ciò che non si ricorda, altro esempio, è che normative di prevenzione ce n’erano in vigore, già allora. Anzi, già da metà degli anni Cinquanta, era obbligatorio che le lavorazioni con amianto avvenissero senza emissione di polvere o, comunque, con l’aspirazione immediata delle polveri nel punto di emissione. Inoltre, c’erano norme precise sulla separazione delle lavorazioni, sulla pulizia dei locali, e sulla pulizia degli stessi addetti e dei loro abiti da lavoro…. Invece, queste norme furono ripetutamente infrante nello stabilimento Eternit.
Infine, a proposito di enti locali, il sindaco di Casale Riccardo Coppo scrisse personalmente a Stephan Schmidheiny chiedendo conto – lettera recuperata nell’archivio municipale – dell’avvio di una produzione in sicurezza, senza impiego di amianto, come la società Eternit più volte, attraverso i suoi dirigenti, aveva promesso, «ma si capì – dichiarò Coppo, testimone al maxiprocesso Eternit 1 – che quelle rassicurazioni erano una presa in giro». E, così, in attesa di una legge (frenata dalla lobby dell’amianto), firmò egli stesso un’ordinanza per vietare l’amianto a Casale Monferrato: correva l’anno 1986.
NE BIS IN IDEM
I difensori ribadiscono tutte le tesi che erano state oggetto delle eccezioni preliminari, tra cui l’applicazione del ne bis in idem (non si può processare un imputato due volte per gli stessi fatti). A tal proposito era stata interpellata la Corte Costituzionale, che non aveva, invece, rilevato alcun impedimento. Gli avvocati Di Amato e Alleva chiedono che il quesito venga posto alla Corte di Giustizia europea.
PROVVEDIMENTI DI ALTRI GIUDICI
E, infine, sollecitano la Corte d’Assise d’Appello a prendere atto di due provvedimenti emessi da giudici che si sono occupati di altri filoni del procedimento Eternit Bis. Primo provvedimento: la sentenza di secondo grado nel filone relativo a Cavagnolo; in questo processo, Schmidheiny, per una delle due vittime, è stato assolto. Di Amato e Alleva riassumono che quel procedimento aveva per oggetto «due omicidi in danno di un ex lavoratore e un residente». La condanna dell’imputato per la morte del lavoratore è stata confermata in secondo grado, mentre la stessa Corte d’Appello lo ha assolto per il caso della residente, affermando «la “impossibilità di determinare con precisione la fine del periodo di induzione della malattia” (cioè quando il mesotelioma, pur ancora invisibile, si è insediato nell’organismo umano, ndr)». I difensori puntualizzano che quella Corte d’Appello si è pronunciata per l’assoluzione in quanto, a suo giudizio, «non ci si può basare su stime derivanti dagli studi epidemiologici».
Secondo provvedimento: l’archiviazione del filone Eternit Bis, da parte del gip di Reggio Emilia, riguardante un paio di vittime di Rubiera, perché, si legge nello stralcio riportato dai legali di Schmidheiny, «quando si discorre di concause cumulative si presuppone che ciascuna concausa abbia appunto natura accertata e dimostrata di condizione dell’evento (al pari delle altre)». Di Amato e Alleva fanno proprie le parole di quel giudice e, applicandole anche al filone casalese (per 392 vittime), scrivono che «non può escludersi che talune esposizioni possano costituire condizione esclusiva dell’evento, relegando le altre (certamente quelle intervenute dopo il completamento dell’induzione) a cause meramente ipotetiche».
Eternit Bis, anche la pubblica accusa ha impugnato la sentenza della Corte d’Assise. Ecco i motivi
In oltre mille pagine la Corte d’Assise spiega perché ha condannato Schmidheiny
Grazie Silvana . Non ne usciamo più . Buona settimana
A forza di arrampicarsi sugli specchi non avranno più unghie.
Continuiamo a sperare.
Ancora grazie della dettagliata informazione.