«Tutto ciò che è esistito ha lasciato tracce» scrive Joseph Roth. Ma il rischio è di «dimenticare alla svelta e senza esitazione». Guai che accada! Saremmo allo sbando, ci perderemmo. Il virus ci ha smorzato la voce, ci ha oscurato la fisionomia, ci ha falcidiato i contatti, ci tiene a distanza. Impone e dispone. Ma i ricordi no, non se li porta via.
Il nostro dono augurale è un amarcord del tempo di Natale. Anche solo per sorridere un poco che, in questi giorni, non è poi così poco!
Silvana & Sergio
* * *
Racconto di
SILVANA MOSSANO
Le fette di salame erano disposte a raggiera su un piatto rotondo e grande, un poco sovrapposte come a rincorrersi: su un lato il salame crudo, sull’altro il cotto, fette un po’ spesse, tagliate con un coltellaccio a lama lunga. Ogni tanto mia nonna Ada l’affilava facendola scorrere con vigore, in un verso e nell’altro, su una superficie dura tipo un davanzale di pietra.
Era, il salame, il piatto d’entrata del pranzo di Natale. Il menù era una certezza anno dopo anno, con poche varianti sul tema; non perché le donne di casa non sapessero fare altro, avevano anzi un’inventiva fervida nel manipolare e tirare fuori profumi invitanti e gusti sopraffini mescolando quel che usciva dalla terra, dalla stalla e dal pollaio. Ma il pranzo di Natale era, come dire?, certificato.
Il salame veniva fatto con il maiale o con le oche che mia nonna allevava. Una faccenda, la preparazione dei salami, cui non era consentito ai bambini assistere, perché ritenuta cruenta. Così come venivamo tenuti fuori dalla stalla quando nascevano i vitellini. «Fa nen entrà ‘l masnà!», non fare entrare i bambini, era la raccomandazione perentoria. Potevamo assistere e partecipare alla raccolta del grano, allo sgranocchiare delle pannocchie sull’aia, alla monda nelle risaie, alla pulizia delle stalle accompagnando il trasporto delle carrette cariche di letame dall’odore vaporoso e, a suo modo, avvolgente e buono, alla cova delle uova e all’ammazzamento delle galline, ma dei conigli no (che ci pareva di aver capito avvenisse con un pugno secco sulla testa), no al parto dei vitellini né all’uccisione del maiale. Una volta fatti, tra ottobre e novembre, i salami venivano appesi alle travi di legno in soffitta, nell’attesa che fossero stagionati al punto giusto.
Il pranzo di Natale era un rito non per mangiare di più che, sì, un po’ di più si mangiava con tutte quelle cose buone in un colpo solo, ma l’obbiettivo era fare festa insieme. Quella era «la» festa: la tavola con la tovaglia candida di fiandra, i piatti del servizio bello di porcellana comprato un po’ alla volta, pezzo per pezzo, man mano che si vendeva qualche gallina o delle uova, i bicchieri di vetro decorato tirati fuori dalla cristalliera della credenza e spolverati a uno a uno con un panno morbido, il calore della stufa economica smaltata di bianco, i vetri delle finestre appannati su cui ogni tanto un rigagnolo incideva d’improvviso un disegno sghembo.
Le donne cucinavano per due giorni, indaffarate tra soffritti, uova sbattute, maionese montata col cucchiaio di legno e a filo d’olio finissimo «se no impazzisce, butti via tutto e ti tocca ricominciare da capo», albumi a neve, verdure affettate. Non avrebbero delegato nessuno chef o cameriere. Ma quale ristorante! Si sarebbero offese solo a proporlo. Quello era il loro giorno regale in cui venivano lodate, elogiate e finanche applaudite dai commensali ai quali la loro fantasia e le loro mani sapevano donare un gradevolissimo benessere.
La stanza, centro della vita, era sempre la stessa, un quattro X cinque malcontato con le pareti imbiancate a tempera, eppure per il pranzo di Natale aveva un’atmosfera diversa, speciale, vibrante di emozione. Era la stanza centrale dove si dipanava la quotidianità nella sequenza dei giorni e delle stagioni; l’unica riscaldata con la stufa a legna, collocata in un angolo con il tubo dei fumi, il «canòn», che si ergeva contro il muro e, dopo una leggera manica, usciva all’esterno. La stufa serviva per scaldare e per cucinare. D’estate, invece, i cibi si cuocevano su un fornello a due fuochi collegato alla bombola PB Gas che mia nonna chiamava «la bumba pipigas». La bombola era un rischio, non tanto per gli scoppi, io a memoria non ne ricordo, ma perché ti mollava a piedi da un momento all’altro. E allora, non essendoci nessun telefono, con la pasta sul fuoco (spento) ti toccava inforcare la bicicletta e andare ad avvertire «cu l’om» che, di feriale o di festa, arrivava prontamente a sostituire quella vuota.
Sulla parete opposta alla stufa c’era la credenza con tutte le stoviglie e le tovaglie di uso corrente e, in un cestino, le uova fresche raccolte nel pollaio; sul pianale, qualche portaritratto con fotografie seppiate dei vivi e dei morti.
Sul lato più lungo della camera, era appoggiato un sofà; quando qualcuno si prendeva la febbre, diventava il giaciglio del malato perché era rischioso salire le scale, al freddo, e raggiungere le camere da letto al piano di sopra che non erano riscaldate: «Mica vuoi che ti venga la polmonite!». Però, se non eri malato di febbre o di tosse o di qualche roba infettiva, a dormire andavi su, ma non è che ti coricassi tra le lenzuola gelide. Un paio d’ore prima veniva collocato, sotto le coperte, il «previ», una sorta di gabbia di legno di forma affusolata che serviva a tenere sollevate le coperte e al cui interno si posava un braciere di terracotta, la «s-ciufetta», colmo di braci prelevate dalla stufa, lievemente coperte di cenere. Tutta l’impalcatura si toglieva qualche istante prima di tuffarsi nel caldo materasso di piume, avvolto tra lenzuola candide di bucato fatto con la lisciva.
Tornando alla stanza dabbasso, al centro c’era il tavolo che, facendolo ruotare su un perno, si apriva come pagine di libro e diventava doppio, sia per quando si dovevano fare i grandi impasti sia per quando si doveva apparecchiare per la festa, appunto. Non c’era nessuna limitazione, né nel numero dei commensali (dai sei ai dieci, a seconda di chi nasceva e di chi moriva lungo l’anno) né nella connotazione parentale: eravamo tutti congiunti per la semplice definizione che ci piaceva stare lì insieme, congiuntamente a tavola, in quel giorno speciale.
Così, tutta imbardata, decorata e profumata, la stanza era più magica di una sala di Versailles, che io lo dico adesso ricordando l’emozione di allora, perché da bambina manco sapevo che cosa fosse Versailles.
L’altro locale caldo e molto vissuto della casa era la stalla, divisa «dalla stanza» con una porticina di pioppo leggera come carta velina. Praticamente era come fosse un tutt’uno ed era normale sentire, mangiando o chiacchierando, i muggiti delle mucche e il tintinnio delle catene legate alla greppia. Nessuno se ne curava.
Nell’angolino, tra la portina di pioppo e il sofà, mia nonna collocava un tavoletto minuscolo, portato in piano con un legnetto infilato sotto la gamba zoppa; sopra, ci faceva il presepe, che stava lì, profumato di muschio e innevato di farina, da inizio dicembre fino all’Epifania. Davanti a quel presepe mi incantavo a lungo, accostavo una sedia e osservavo: la Sacra Famiglia, i pastorelli – lo zampognaro, quello con l’agnello sulle spalle, la lavandaia -, le pecore ricoperte di cotonina bianca, il laghetto di stagnola, la stella cometa brillante di porporina, e mi perdevo nelle stupefacenti caverne delle montagne che mia nonna con maestria sapeva costruire stropicciando la carta. Che vuoi che ti dica? Quando mi pigliano certi giorni ammollati nella malinconia che non sai perché, chiudo gli occhi e mi intrufolo ancora oggi dentro i percorsi immaginari di quelle caverne, cercando un po’ di ristoro, avviluppato da un nodo in gola. Che non è nostalgia stantia, né sterile rifugio nel passato, ma è la sosta di un attimo per rifiatare, ripescando quella vena di fanciullezza spensierata che, sotto sotto, ognuno custodisce. Il più delle volte la si tiene sepolta perché ne siamo imbarazzati, un po’ ci si vergogna se qualcuno ci sgama con un sorriso bambino stampato sulla faccia, ci si ritrae a riccio, con un vago senso di colpa. Eppure è così: «Tutti i grandi sono stati piccoli, ma pochi di essi se ne ricordano» dice il saggio «Piccolo Principe» di Saint Exupery.
Dunque il salame, prima affettato su un asse di legno e poi disposto con cura sul piatto tondo decorato con un filo dorato, veniva collocato al centro del tavolo. E, ai lati, i grandi piatti ovali con l’insalata russa e il vitello tonnato. «Sedetevi, sedetevi!» era l’invito sollecito di mia nonna. E tutti ci sedevamo, mio padre a capotavola e poi gli altri. Ai bambini veniva messo un cuscino sulla sedia: «Vai bene così? Ci arrivi?». E in questo modo eravamo, suppergiù, tutti allo stesso livello.
Sotto il piatto di mio padre, furtivamente, si fa per dire, sistemavo la letterina «Cari genitori», che lui fingeva di trovare inaspettatamente e leggeva a voce alta. Mio padre era molto teatrale quando leggeva la letterina impreziosita di polverina dorata: soppesava le parole, annuiva con la testa e lasciava sfuggire sorrisi compiaciuti da sotto i baffi. E poi recitavo la poesia. «Sali in piedi sulla sedia – mi esortava -, così si sente meglio». E io mi arrampicavo e mi tenevo in equilibro e cominciavo a recitare le rime che avevo imparato a scuola e che mia madre, giorno dopo giorno, mi aveva fatto ripetere «così poi la sai bene e fai bella figura». E tutti stavano attenti e poi esplodevano in un coro di complimenti.
Ti prendeva un’emozione di cui non sapevi identificare l’origine: il tepore della stanza, i profumi dei cibi mescolati all’odore caldo dello stallatico e a quello aspro del muschio, l’atmosfera lenta, il vestito bello e nuovo che era stato indossato per andare a messa. Ecco, si stava proprio bene.
Era il compimento dell’attesa che, giorno dopo giorno, si era alimentata di speranza e di gioia, di neve e di galaverna, di scintillio di ghirlande e di montagne di panettoni Motta o Alemagna nel cartone blu e azzurro, ammonticchiati a piramide sui davanzali del Caffè Italia nella piazzetta del Tribunale, di emozione e di eccitazione, di curiosità per i doni che Gesù Bambino e Babbo Natale avrebbero portato: un giocattolo, scelto con cura dai genitori e che ti sarebbe bastato di certo per tutto l’anno, una sciarpa o una «bertòla» di lana «Gatto», un libro e una scatola con il lenzuolo di lino o misto lino marca «Giglio» per il corredo, al quale io non ero affatto interessata, «ma, quando sarai grande, te lo trovi e sarai contenta».
In realtà, l’emozione del giorno di Natale era la maturazione della prolungata e cadenzata attesa. L’attesa, liberata dal nodo scorsoio dell’ansia frenetica, è l’antitesi della fretta; l’attesa allena alla pazienza gioiosa che sollecita a guardare lontano verso l’obbiettivo, ma senza rompere il passo; anzi, centellinare ogni passo accresce magicamente il desiderio della meta. In questo senso, l’emozione dell’attesa fa pregustare con lenta pienezza la gioia della meta.
Dunque, si cominciava con i salami, l’insalata russa e il «vidél tuné», accompagnando con le «griscie» di pane fragrante, che il panettiere aveva lasciato la Vigilia nel sacchetto di tela appeso al cancello. Nelle bottiglie di vetro, l’acqua del pozzo con la «viscì» frizzante e, per i grandi, la barbera: a me faceva senso, anche solo quando una gocciolina rosata scendeva lungo il collo di vetro.
Non c’erano distrazioni. Televisore spento. Chi era lì ci era per davvero, completamente, corpo e pensieri.
Dopo gli antipasti, arrivavano i cappelletti nel brodo di cappone. I cappelletti con il «pin» di carni arrosto vengono confezionati a uno a uno, incidendo il foglio di pasta, tirato sottile con il matterello, con un bicchierino da cichét per ricavarne tanti cerchietti uguali. Dentro a ogni cerchio veniva deposto uno «spion» di pin schiacciato tra pollice, indice e medio, per poi avvolgere con un abile gioco di dita. Io adoravo assistere a quella preparazione che avveniva di solito l’antivigilia. In verità, avevo anche un ruolo attivo: mi veniva affidato il compito di disporre i cappelletti su un asse coperto da un telo bianco e di contarli. Ogni tanto, ne facevo scivolare uno per terra e, poi, furtivamente, mi abbassavo e lo mangiavo, così, crudo, che mi piaceva tanto. E pensavo di non essere stata scoperta, non fosse stato per il velo di farina spiona che mi restava attorno alle labbra.
Fino ai cappelletti, il menù era fisso. Potevano esserci delle varianti, invece, sul secondo, che allora si chiamava pietanza. Di solito, un arrosto: il gallo, o l’anatra, o la faraona con una pucetta «da far resuscitare un morto». Poi i piselli e, un po’ più leggera, l’insalata. Quando arrivavi fin lì, tra bis, «prendine ancora un pezzo», «volete mica avanzarlo», non c’era bisogno di molto altro. «Sono pieno» dicevano tutti. Io, invece, dicevo «sono sazia» perché, fin dall’asilo, la maestra Elena aveva ammonito severa: «Piena è la botte. Le persone sono sazie!». Restavano, ad allungare le chiacchiere lente, una manciata di noci tra le briciole sulla tovaglia, magari qualche «purtigàl» – le arance -, la torta di zucca che mia nonna chiamava il «turtulòn» e una fetta di panettone comprato al Caffè Italia. Per i piccoli il panettone era un’incombenza complicata perché c’erano tutte quelle uvette e i canditi da scartare a uno a uno che, vassapere perché, proprio non andavano giù.
I grandi parlavano di raccolto e di semina, di quelli che eran morti e di quelli che eran nati, e di parenti lontani «a la Merica» che «là a Natale è estate e c’è il sole»; io mi immalinconivo un po’ perché a Natale a me piace la neve e le stalattiti di ghiaccio pendenti sotto i davanzali e mi pareva impossibile che qualcuno potesse essere contento se, invece, c’era il sole e si andava a nuotare al mare. E parlavano della guerra, di quelli che non erano tornati e di quelli che l’avevano sfangata, e del coprifuoco, e della tessera per comprare quel po’ di carne pesata a grammi. «In città era peggio, si dovevano far bastare un poco di pane nero; in campagna, invece, non è mai mancato il pane bianco…», ed evocavano certi viaggi segreti, prima dell’alba o all’imbrunire, per comprare farina o zucchero alla borsanera. I piccoli ascoltavano affascinati i racconti di personaggi mai visti e che tuttavia, in quelle narrazioni già sentite e risentite, era come se li conoscessero. Quando si stufavano, scivolavano giù dalle sedie e andavano nella stalla a sedersi su un balòt di paglia, con i pulcini nella cesta che pigolavano ininterrottamente, le mucche che muggivano ogni tanto, il gatto che ronfava acciambellato e il cane lì accanto con il muso appoggiato sulle zampe come conserte.
Ma nessuno, adulti e bambini, indugiava a lungo nell’ozio, neppure a Natale. «Dai che è ora di andare a casa» sollecitava mia madre, tirandomi la sciarpa fin quasi sugli occhi.
Passavo ancora una volta davanti al presepino sorridendo al Bambinello appoggiato nella culla, nudo e con un telino bianco sul pancino. Non erano le statuine del bue e dell’asino dentro la capanna che lo scaldavano, ma lì, nell’angolo della stanza a ridosso della stalla, c’era proprio un bel teporino. Beh, non mi ricordo di aver sentito dire che si sia mai preso l’influenza.
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Che bel regalo mi hai fatto con il tuo scritto. Ho vissuto tutto quello che hai raccontato con la solita classe che ti contraddistingue. Non l’avevo dimenticato, ma l’ho rivissuto in questo momento. Grazie, grazie di cuore.
Bellissimi ricordi
Ricordo la mia mamma che tra gioia e qualche lacrima sarà sempre nel mio cuore
Grazie grazie di cuore ho rivissuto momenti che non torneranno più ma che sono sempre rimasti nel mio cuore. Che nostalgia!!
Grazie per i bei ricordi che non torneranno più ma che sono sempre rimasti nel mio cuore. Che nostalgia
Quanti ricordi in comune, a cominciare dalle fette di salame disposte nel piatto…
Cara Silvana come sempre le tue parole ci risvegliano sentimenti e ricordi che in realtà sono appena sopiti. Per me il Natale di bambina era”cittadino”ma l’atmosfera era la stessa :semplicità, buonumore, tepore casalingo, contentezza di condividere con i miei cari quello che era stato preparato per il Giorno di Festa. Rimpiango quei momenti di serenità, cosa che oggi ci manca per tanti motivi
Sentori,sapori,umori ed atmosfere ritrovate nel Tuo racconto-ricordo , scaldano la vigilia del nostro Natale. Grazie per il Tuo dono ! Serenità cara Silvana per questi giorni , il mio augurio.
‘Insieme, congiuntamente a tavola, in quel giorno speciale’ sono le parole che ho apprezzato di più, perché riassumono tutti i miei Natali, dalla famiglia ‘nucleare’ di origine a quella più rumorosa e allegra coi figli, i nonni e qualche zia altrimenti sola, a quelli di oggi con figli e nipoti … quelli di qui, perché per gli altri bisognerà aspettare. Però eravamo lo stesso ‘Insieme, congiuntamente a tavola’.
Grazie!Mi sono ritrovata nella magia e nel calore di ogni dettaglio, rivissuto con genuino spirito natalizio…
Silvana bellissimo il tuo racconto..in molte cose visto anche eta’ e estrazione contadina dei.miei vecchi ho rivissuto momenti della prima infanzia.