SILVANA MOSSANO
Ricigliano è un paesino di un migliaio di abitanti, in provincia di Salerno, sul confine tra la Campania e la Basilicata, nella regione irpina polverizzata dal terremoto di magnitudo 6,9 della scala Mercalli, la sera del 23 novembre 1980. Ore 19,30 circa: c’era chi, come in tutta l’Irpinia, stava cenando – pane a crosta dura e pecorino, zuppa di ceci o fagioli –, chi tirava tardi al caffè tra chiacchiere lente, qualche bicchierino e le carte da gioco appiccicaticce tra le mani, chi stava in chiesa a pregare o a provare i canti per l’Avvento imminente, chi sbrigava le ultime faccende tra stalla e pollaio.
Fu un attimo, una scossa sismica di novanta secondi sbriciolò un’estensione suppergiù pari alla superficie del Belgio. Poco meno di tremila persone morirono cristallizzando gesti e pensieri nello sfrigolare di pochi secondi.
«Fate presto» esortava, a caratteri di scatola, la prima pagina del quotidiano «Il Mattino» di Napoli in quei giorni dannati e disperati, in cui ci faceva a fatica la conta dei morti, dei feriti, degli sfollati.
La carovana della solidarietà si mise in movimento e attraversò l’Italia per raggiungere le terre colpite dal terremoto. Partirono anche dal Monferrato su uno di quei pulmini sgangherati che, in quegli anni, avevano in dotazione certi parroci intraprendenti impegnati soprattutto in un apostolato formativo dei giovani. La Caritas casalese, allora guidata da don Paolo Busto, organizzò spedizioni di aiuti in Irpinia; coinvolse anche don Gino Piccio, classe 1920, che, da alcuni anni, aveva fondato Cascina G, a Ottiglio, dove si parlava di fratellanza, solidarietà, coscienza civile (la «coscientizzazione» diceva lui, sull’insegnamento del pedagogo brasiliano Paulo Freire), sperimentandole con coerenza. Un gruppo guidato da don Gino era già intervenuto, in Friuli, dove si era verificato un altro potentissimo e distruttivo sisma nel 1976: lì ci erano rimasti due anni. A Ricigliano, nella parte rurale del paese, don Gino e i suoi ragazzi operarono tra il 1980 e il 1983.
«Avevo vent’anni – racconta Sergio Giordano, fresco diploma di ragioniere e un’occupazione, all’epoca, alla Cantina sociale di Cerrina, il suo paese. Ne sono passati 40 da allora -. Non conoscevo don Gino. Avevo sentito che la Caritas diocesana stava allestendo un campo di lavoro in Irpinia per soccorrere i terremotati». Il prete di Cascina G aveva già maturato quell’esperienza e si mise in viaggio. Giordano era tra loro.
«Un viaggio lungo e avventuroso, guidavamo il pulmino a turno». Negli occhi avevano le immagini trasmesse in tv o fissate sulle pagine dei giornali in bianco e nero: cumuli di macerie in una sequenza senza soluzione di continuità, da cui emergeva, ogni tanto, un tetto rimasto su, la punta di un campanile, e figure spettrali che si aggiravano in quel cimitero di rottami a cercare l’appiglio di un ricordo o un brandello di memoria di ciò che, lì, fino a pochissimo tempo prima, c’era stato: in piedi, vitale, utile, fruibile. E non c’era più.
Il gruppo di don Gino – non tutti monferrini, ma anche di Milano, Venezia, Bolzano e altre località che già frequentavano Cascina G – percorreva l’asse lungo dell’Italia, da Nord a Sud. La meta era il comune di Ricigliano, «principalmente l’estesa e dispersa zona rurale – rievoca Giordano -: noi eravamo volontari e non volevamo intralciare il lavoro delle istituzioni che intervenivano soprattutto nei centri abitati». Le campagne, in area montana, erano ancor più abbandonate e dimenticate. Non soltanto le case erano inutilizzabili, ma anche le modeste stalle e i ricoveri del bestiame e degli attrezzi, fonte essenziale di vita per le comunità che campavano di orto, galline, animali da latte.
«Nel primissimo periodo, il nostro fu soprattutto un lavoro manuale, per ricostruire quel che era crollato – prosegue il casalese, ora infermiere alla Casa di riposo -. C’erano due gravi problemi da affrontare prima di tutto: le strade e la luce». Semplicemente – pare incredibile! – all’inizio degli anni Ottanta non c’erano mai stati. In particolare l’elettrificazione: «Si usavano ancora lampade o lanterne». E le strade sterrate erano saltate come castagne arrosto sotto la spinta del sisma. «In un tratto si era formata una immensa voragine». Il terremoto aveva fatto da livella: tanto le vie di accesso più o meno moderne nei centri maggiori quanto le strade più modeste delle periferie erano sprofondate, i ponti crollati. Lo Stato fu accusato, dallo stesso presidente della Repubblica Sandro Pertini, di ritardi nei soccorsi; realisticamente, in un’epoca in cui non esisteva una rete di protezione civile e si improvvisava incespicando in tanta buona volontà disorganizzata, fare arrivare gli aiuti fu impresa davvero complicata e pasticciata.
Ripesca nei ricordi Sergio Giordano: «Le prime settimane si lavorava molto con le mani e la schiena china», ma don Gino aveva già in mente un intervento parallelo più incisivo e duraturo, finalizzato appunto a suscitare la «coscientizzazione», cioè una spinta responsabile tra le persone del posto, soprattutto le più giovani, a farsi carico del loro territorio e dei suoi bisogni, pretendendo soluzioni strutturali e democratiche.
Nel paese di Ricigliano si formò un bel gruppo; nelle pause del lavoro manuale, si organizzavano incontri sotto una struttura fatta con un tendone da paracadute e si parlava del futuro e di una rinascita consapevole. Nel frattempo «erano state montate due baracche, fatte con pannelli di frigoriferi fissati su basamenti di legno: una fungeva da refettorio e ci dormiva don Gino, l’altra era il dormitorio per noi volontari del gruppo».
In tre anni, furono portate via le macerie e rimesse in piedi le costruzioni rurali: «C’era tra noi un capomastro di Moncalvo, già in pensione, che sapeva fare quel tipo di mestiere e ci insegnava come impastare cemento, sabbia, ghiaia e acqua nella betoniera, come mettere un mattone sull’altro e così via» racconta Sergio Giordano.
Ma si faceva ben di più. «Si era costituito un comitato di abitanti determinati. Un giorno, si è anche andati a manifestare fin davanti alla sede della Regione a Napoli, per ottenere l’elettrificazione delle zone rurali».
Ci volevano i soldi. «Molti aiuti arrivavano dalla Caritas di Casale che, tramite le parrocchie, aveva attivato una proficua raccolta di fondi». Ma un ulteriore sostegno, congruo e decisivo, arrivò dalla Provincia autonoma di Bolzano: «Ci furono diverse riunioni, noi preparammo un piano, l’elettrificazione era imprescindibile, senza luce non si poteva fare nulla». E la luce fu. Così anche la strada principale, e pure l’erogazione adeguata di acqua.
«Il nostro lavoro era apprezzato, la gente era grata per quel che facevamo».
Il Comune di Ricigliano fu poi insignito della medaglia d’oro al merito civile. La motivazione recita: la comunità «con grande dignità, spirito di sacrificio ed impegno civile affrontava la difficile opera di ricostruzione del proprio tessuto abitativo, nonché della rinascita del proprio tessuto sociale, economico e produttivo. Mirabile esempio di valore civico ed altissimo senso di abnegazione». In quel riconoscimento è impressa la cifra di don Piccio: non solo, con i suoi ragazzi, ha rimosso le macerie prodotte dal terremoto, ma ha smosso le coscienze della gente locale, imprigionate nella rassegnazione e nel fatalismo, favorendo la costruzione di una consapevolezza attiva e propositiva.
«Io che, dopo il primo periodo di volontariato, ho poi fatto laggiù un anno e mezzo di servizio civile, sono stato l’ultimo a venire via nell’83» ricorda Giordano. Ormai la collettività era rinata. «Abbiamo lasciato lì tutte le attrezzature che avevamo portato». Anche la betoniera, simbolo, con il suo roteare lento e persistente, di una ricostruzione profonda: tangibile nelle case e radicata nelle coscienze.
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Il tuo stile narrativo e sempre molto fluido e affascinante
Cara Silvana, le tragiche immagini scorse in TV, in questi giorni, ci hanno roportati a quell’anno come le tue invcisive parole. Onore al merito di tutti quei volontari che hanno dato tanto per aiutare quegli sfortunati.